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L’INTREPIDO di Gianni Amelio – VENEZIA 2013

l'intrepido venezia 70 (4)

REGIA: Gianni Amelio
SCENEGGIATURA: Gianni Amelio, Davide Lantieri
CAST: Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 2013

PROVACI ANCORA GIANNI

Dopo il calvario a cui l’hanno suo malgrado sottoposto le riprese de Il primo uomo, durate cinque anni tra intemperie produttive varie (ma da cui è scaturita un’opera di un lindore filmico e un rigore morale d’altri tempi, purtroppo sottovalutata e passata inosservata), Gianni Amelio si è voluto/dovuto rilassare con un film-lampo, dalle ambizioni più piccole. Almeno, sulla carta: perché le ispirazioni sono alte (la grazia di Zavattini in Miracolo a Milano), le citazioni vistose (vedi alla voce Ladri di biciclette), regia e scrittura puntano a rievocare un cinema italiano ben preciso, quello del realismo magico, la poesia delle piccole cose, della gente comune, dei sentimenti minuti. Per darvi corpo e cuore, Amelio impugna come protagonista assoluto Antonio Albanese, dando al personaggio il suo nome, e lo mette alla prova con un registro per lui inedito, sempre sul filo e in costante sottrazione implosiva, più curioso che buffonesco, più sfortunato che drammatico.

Antonio Pane, professione: rimpiazzo, con un figlio smarrito da cui è costretto a batter cassa, e innamorato di una principessa triste che non può salvare, echeggia un po’ il Candido volteriano, un po’ l’idiota di Dostoevskij (spesso più il secondo che il primo), un po’ Totò il buono, un po’ il muto malincomico chapliniano (le mascherine che calano sulla scena non lasciano spazio ad ulteriori possibilità). Solitario e/ma ottimista, anima docile e ingenua, (si) dà agli altri indifferentemente, consapevole dei propri limiti e, praticando l’onestà,  dialoga con la medesima scioltezza con una signora invalida e silente (in una scena azzeccata) e con un bambino ostinato (in una delle scene più scontate).

Le intenzioni e le ispirazioni, così intavolate, sono però carte talmente scoperte che le abbiamo già assorbite ancor prima di vederle risolte: e ciò accade, a sorpresa, con un didascalismo che appesantisce il film. L’intrepido punta a rappresentare un omaggio all’Italia com’era, con quei lavori manuali che stanno scomparendo, e ad elevare l’importanza della dignità del lavoro in ogni sua forma, per quanto umile (come sono tutti gli impieghi che ricopre ad intermittenza il protagonista): ma ha il fiato troppo carico quando vorrebbe essere lieve, traballa sulla propria programmaticità, nella retorica sulla difficoltà della vita sociale e il disagio giovanile, nei dialoghi quasi sovrimpressi letterariamente sulle facce dei protagonisti. Le poche cose buone incespicano sotto la coltre del paternalistico, e nello stagliare un protagonista che troppo spesso più che buono (non tanto «come il pane», più che altro essenziale e semplice come la farina) finisce per sembrare fesso. E alla fine bruciano gli occhi al pensiero che un autore sempre così in palla come Amelio, che ha sempre preso bene la mira nel colpire al cuore, adesso manchi il bersaglio con un film tutt’altro che intrepido, come il suo bel e benaugurante titolo.

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