LO ZIO BOONMEE CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI di Apichatpong Weerasethakul – Palma d’oro Cannes 2010

REGIA: Apichatpong Weerasethakul
SCENEGGIATURA: Apichatpong Weerasethakul
CAST: Thanapat Saisaymar, Jenjira Pongpas, Sakda Kaewbuadee
ANNO: 2010

SOGNO O SON DESTO? DELLA REMINISCENZA DI AMORE E CINEMA 

C’è tanto amore nel film che Apichatpong Weerasethakul ha intitolato Lo Zio Boonmee che si Ricorda della Sue Vite Precedenti, ed è un amore universale, panico, empatico, magico per tutte le cose che si affacciano alla vita sulla terra: per le persone, per gli spiriti, per gli animali (tutti, anche gli insetti – e non è certo degli scarrafoni belli a mamma loro che stiamo parlando, o forse sì…), per le immagini, per i suoi genitori, per la pellicola, per il cinema.
L’amore, che nel cinema di Apichatpong Weerasethakul è la materia di cui sono fatti i legami gli esseri umani e gli esseri umani, tra la natura e i suoi membri.
L’amore, che è anche la forza che fa comunicare gli esseri (stavo per scrivere le creature, ma no, non sarebbe lecito, non sarebbe rispettoso del punto di vista diZio Boonmee; sarebbe come parlare di un altro film, di un film che – infarciti come siamo di schemi culturali giudaico-cristiani – avremmo fatto meno fatica a cogliere nella sua essenza).
L’amore, che permette a Boonmee, protagonista malato ai reni e ormai al termine di una sua vita, di ritrovare quello che aveva perso lungo la strada di un’esistenza: la moglie, morta vent’anni prima, il figlio, scomparso da un decennio nella foresta dopo aver scelto di seguire una sua ossessione e diventare una scimmia fantasma, e il ricordo di se stesso in altri corpi e altre forme, nelle sue vite precedenti. 

Lo Zio Boonmee racconta – uh, che parola poco adeguata a questo film che è raccontare, una parola che ti mette davanti all’impossibilità (all’incapacità) di descrivere qualcosa che si è vissuto e che ricade al di fuori degli schemi che il linguaggio, almeno in occidente, ci permette di interpretare, una parola che ti spoglia nudo di fronte allo scollamento tra esperienza e la comunicazione dell’esperienza, al fallimento della critica, alla vittoria dell’empatia – qualcosa… sì, forse stare sul vago è l’unica maniera possibile per parlarne; forse bisogna fare come il film: suggerire. Il problema è che chi scrive ha a disposizione solo qualche lettera incastrata tra sue consimili, e non il ventaglio di spazio-tempo-immagine che Apichatpong Weerasethakul apre davanti agli occhi dello spettatore per incantarlo. A incantare chi legge, dobbiamo rinunciare prima ancora di provarci, ché sarebbe solo tentare un inganno, un indebito e vile gioco di prestigio, come parzializzare l’universale, categorizzare un magma, illuminare il buio; perché Lo Zio Boonmee rassomiglia a un’allucinazione, a uno stato di dormiveglia in cui non si è sicuri di cosa si stia vedendo/vivendo, e magari anche del fatto di averlo visto per davvero: una rappresentazione di un mondo che non è toccato dal dolore, dal dramma, dalla tristezza, in cui il paradiso è vuoto di anime, perché nessuno ci vuole stare, solo e senza chi ha amato/ama ancora, un mondo in cui i pesci parlano con tono suadente, i bufali si fanno accompagnare dolcemente, il miele è nettare celestiale e le tisane dal gusto amaro han solo bisogno di abitudine per diventar piacevoli, un mondo in cui spiriti, animali e umani siedono intorno al desco, calato il tramonto, come se fosse la cosa più comune da fare, e discorrono di fisica e metafisica, naturalmente senza distinguere tra le due.
Cos’è Lo Zio Boonmee, alla fine della rimembranza, ancora non ci è chiaro. Il film di Apichatpong Weerasethakul è il sogno di uno spettatore di sognare con gli occhi di un altro, il film che in tanti sognano di riuscire a fare, la vita che il suo protagonista ha sognato di vivere. E come in tutti i sogni, il risveglio, che sia la fine della proiezione o il ritorno al presente del Boonmee sullo schermo, dopo tanto vagare in un passato ovattato dal ricordo, è duro, freddo, politico, scisso. Unica consolazione, e concedetemela in chiave anti-amletica: al giorno segue la notte, e allora potremo ancora sognare.

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