MANDERLAY

REGIA: Lars Von Trier
CAST: Bryce Dallas Howard, Danny Glover, Isaach De Bankolè
SCENEGGIATURA: Lars Von Trier
ANNO: 2005


A cura di Pierre Hombrebueno

NICHILISMO VERSO LA POLVERE DELLO SCHELETRO

Non è solo la morte della vita (o la vita della morte) che Von Trier, ancora una volta, ci mostra in questa sua ennesima provocazione stilistica e concettuale. Perché forse, da sempre, in Von Trier non c’è mai il “solo”, ma sempre e comunque “L’oltre”, “L’al di là” di significati paradigmatici delle sue ideologie prima di cadenza espressionistica, poi di favoranza militante (e naturalista), ed infine in questa sorta di scheletro vivente (e morente) che è la trilogia sull’America. E l’unica critica, plausibilissima, che si può ancora una volta rivolgere all’opera Von Trieriana, è puramente etica, o perlomeno idealistica, falsamente idealistica nel soggettivizare su parole (dialoghi – sceneggiatura – concezione storica) una parabola inquinata, che qualcuno ha già accomunata con i sermoni dei preti quando andavamo a messa da piccoli, rompendoci i coglioni. Eh si, Von Trier è un moralista, ma di sicuro più interessante (e appagante) di questo moralismo etico, è il suo moralismo estetico – artistico – cinematografico. Perché forse stiamo giungendo alla pura applicazione visiva della sua ideologia filmica stessa, quella che ha provato ad applicare con il Dogma, che non è solamente un ritorno al naturalismo, ma anche e soprattutto un viaggio verso le viscere più profonde (e talvolta ignote) del Cinema e dell’immagine. Una tendenza pian piano a “svuotare” il Cinema, il neo-cinema.

Quindi, la trilogia sull’America non può che essere la diretta conseguenza di questo risucchiamento e prosciugamento dogmatico, di questo ritorno naturalistico verso gli oblii inceneriti del Cinema e dell’immagine in generale, come una sorta di astrattismo informale fatta di linee e calligrafie nel buio nero che si proietta negli sfondi, mai così avvolgenti proprio perché infiniti nella loro fin(i)tezza. Ancora una volta ecco l’abolizione totale di scenografie ed una funzionalità concettuale degl’arredamenti, una scarnificazione dell’immagine finta e malata per renderla totalmente visibile e tangibile nella sua ombra fantasmagorica, sfuggentemente scheletrica, appunto. E’ una scarnificazione scaltra, in quanto la prassi operativa passa dall’inversione non solo della pratica, ma anche della teoria stessa: l’anti-estetizzazione verso le formalità puramente corporali e sintagmatiche del Cinema è diventata l’estetizzazione stessa di questo Cinema del vecchio-nuovo Von Trier, un trapassamento a raggi x nell’immagine e oltre l’immagine, trans-visiva, in una denuncia di provocazione che può ricordare, in senso opposto, quello di autori come Tsai Ming Liang o Hou Hsiao Hsien, come se tentando di scavare e scavare nell’immagine, Von Trier sia riuscito invece a crearne una totalmente nuova, simil meta-teatrale e quindi meta-cinematografica, riflessiva e riflettente nella concezione estetica del post-moderno che nel contempo diventa anti-post-moderno.
Più di Dogville, Manderlay è totalmente condensato, in medias-res, diretto, formalmente spirituale, quindi teorico, e per questo, sempre incaptabile e ambiguo, sempre Von Trier, da amare o da odiare a dipendenza di accuse e contro-accuse, a dipendenza di sfruttamenti psicologici o puro sadismo Dreyeriano, con quell’uso di situazioni e fotogenie al limite dell’estremità drammatica.

Un mix di reportage documentaristico, teatro, e vuoto nero: che sia questo il nuovo Cinema nato dalle ceneri della morte del Cinema stesso, dallo scheletro vivente (e morente) dell’arte (audio)visiva? Secondo Von Trier si, autorialissimo e inventivo come pochi altri nel panorama odierno, rispettoso e coerente nella sua in-coerenza, nella sua totale contraddizione di termini, ancora una volta a dirci che il Cinema è “tutto e niente”, così come Manderlay è carne e polvere, sangue e linee tratteggiate, un continuo dualismo e aggressione emotiva (in bene o in male, perché è impossibile rimanere indifferenti di fronte ad un Von Trier) in quest’opera che scorre veloce e scattante, para-otticamente visiva nella sua tentata invisibilità viscerale, dove l’autore si muove più consapevole di prima (in Dogville), perché ormai sappiamo chi è Grace e chi è suo padre, immaginandoci un finale che non può essere diverso dal nichilismo, in un continuo vagare Americano in quest’America che non è (solo) metafora (anti)sociale, ma anche e soprattutto metafora cinematografica e artistica, perché in Von Trier forma e contenuto non sono separabili ma vivono in un tutt’uno catartico e apocalittico, che qua si manifesta in una delle sue cime più tempestose per la ricchezza contenutistica degli spunti argomentativi e sorretti da una chiara e aperta sceneggiatura, che grazie alla condensazione (che mancava in Dogville), è funzionale come non mai: poche dilatazioni, e subito dritto al sodo, pre-potente come il più duro degl’ectoplasmi maggiormente penetranti della fisicità carnale stessa.
Magnifica Bryce Dallas Howard, che in fondo è stata solamente teletrasportata in un altro Village shyamaliano, fatto di inganni e bugie per la paura che sempre più sta rispecchiando le nostre sensibilità profondissime, in un intreccio pronto a rovesciare ogni credenza apparente con il solito gioco di specchi spezzati e assimmetrici, così come Manderlay è la sintesi clima(x)tica di tutto il Credo che l’autore danese sta portando avanti dalle sue origini: la deformazione naturalistica del noumeno visivo.

Per noi è già una grande vittoria.

Aspettando il prossimo Washington, ancora una volta, è il caso di dirlo: “Il Cinema è morto, evviva il Cinema!”

(19/06/06)

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