LA MARCIA DEI PINGUINI

REGIA: Luc Jacquet
DOPPIATORE: Fiorello
SCENEGGIATURA: Luc Jacquet
ANNO: 2005


A cura di Pierre Hombrebueno

TRA POESIA E DISCOVERY CHANNEL

Ricordo bellissime discussioni con il nostro Alessandro Tavola riguardo il presunto valore o non valore del genere documentaristico.
Da parte sua, che sottovalutava il genere, il documentario è un genere minore in quanto “nulla s’inventa” e ci si limita ad inquadrare o a montare.
Da parte del sottoscritto, il genere è invece, nel senso baziniano, al pari di tutti gli altri, in quanto nonostante il soggetto pre-esistente e indipendente dal cineasta, è comunque nel posizionamento della sacrosanta macchina da presa e nel modo di riprendere che abbiamo l’inventiva della messa in scena (che in questo senso, diventa più una messa in quadro) e la propria personalizzazione dell’oggetto.
Questo viene ancora una volta confermato in La marcia dei pinguini, un film da vedere con la propria ragazza (è una bellissima storia d’amore), con i propri genitori o figli (è una bellissima storia di famiglia), o anche da soli (è una bellissima storia di sopravvivenza). Fin dai primissimi minuti, con quel campo che mostra ombre di figure sfocate, Jacquet trova il modo di omaggiare il genere western, disegnando i pinguini come cowboy che in lontananza si stanno delineando nel deserto afoso.
Il regista ci confina subito in un territorio favolistico (ed in fondo, La marcia dei pinguini è stato realizzato soprattutto per il bambino che è in ognuno di noi), grazie alla voce narrante di Fiorello (praticamente ci mancava solamente il “C’era una volta..”) e alle bellissime e funzionalissime musiche di Emilie Simon, delle ninna-nanne che si legano con amore alle immagini messe in quadro, colte dalla macchina da presa con estrema enfatizzazione.
Ricordiamo per esempio l’accoppiamento dei due pinguini, un vero atto d’amore che diventa puro perché sappiamo non essere artificiale, una geometrica composizione in/di un uragano di sentimenti; Jacquet riesce così a portare l’elemento naturalistico in poesia prosastica, rafforzando quei momenti già di per sé magnifici con la macchina e il cuore pulsante del linguaggio cinematografico, senza comunque rifiutare quella scientificità che rende l’opera, oltre che una gioia (d’arte)visiva, anche una fonte di conoscenza documentaristica. E’ una favola di scavo antropomorfico che ci mostra vita e morte reale senza troppi narcisismi, quasi come un romanzo di formazione dedicato al fanciullo per mostrargli con occhi innocenti il ciclo vitale e ciò che gli aspetta là fuori nel mondo: lotte difficili, con alternarsi di gioia e dolore, sacrificio e pazzia.
Così il regista ci descrive il pellegrinaggio dei pinguini tra abitudini, usanze, consuetudini, filtrato sotto l’occhio di un Dio onnisciente che deve raccontare tutto con l’estrema semplicità e universalità delle immagini in movimento, promuovendo quella pedagogia che vede nel Cinema un mezzo d’insegnamento scolastico più necessario che mai e talvolta più efficace di libri e professori.
Peccato solo che Jacquet non riesce a rimanere sulla stessa lunghezza d’onda per tutta la pellicola, ed alterna ai bellissimi momenti poetici delle lunghe sequenze che sembrano uscite da Discovery Channel: la macchina da presa, ogni tanto, si blocca su sé stesso, rimuginandoci all’infinito la bellezza di quella natura immortalata sfiorando la ripetitività.
Ma La marcia dei pinguini rimane comunque un buon inizio di un regista che riesce ad infondere la propria personalità d’approccio al genere, insegnando agl’italiani che non deve per forza esistere solo il formato Michael Moore. Ed è assai interessante sapere che in patria francese, quest’opera ha riscosso più successo al botteghino de La Guerra dei Mondi.

(20/11/05)

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