MAREBITO

REGIA: Takashi Shimuzu
CAST: Shinya Tsukamoto, Kazuhiro Nakahara, Tomomi Miyashita
SCENEGGIATURA: Chiaki Konaka
ANNO: 2004


A cura di Luca Lombardini

BLOW..DOWN

Forse il tanto amato – odiato horror asiatico ha finalmente trovato nuovi stimoli creativi. Dopo esser salito alla ribalta per le innumerevoli repliche del suo The Grudge, il regista Takashi Shimizu stupisce tutti con questa pellicola visionaria e allucinante, che parte dal progetto iniziale di realizzare un remake di Blow Up, film capolavoro di Michelangelo Antonioni. Girato in soli otto giorni, avvalendosi esclusivamente di videocamere digitali, Marebito è un viaggio senza ritorno nei meandri più reconditi della psiche umana, una discesa agli inferi alla ricerca della vera essenza della paura. La stessa che ossessiona il cameraman free – lance interpretato da Shinya Tsukamoto, e di rimbalzo un po’ tutto il movimento “new horror” orientale che, a partire da Hideo Nakata, sembra legato indissolubilmente alla matrice “vanlewtoniana” del genere, quella che eresse a modello la gloriosa RKO e i film griffati Tournier, indirizzati a suscitare il terrore attraverso le ombre, le angosce, i silenzi e le attese, più che a mostrarlo nella sua essenza sanguinolenta. Avvolto da un auraantononiana” e spinto da un’incredibile forza visiva, il film si spezza a metà nel momento in cui il protagonista rinuncia all’assunzione degli antidepressivi (farmaci, secondo il regista, familiari alla maggior parte della popolazione di Tokyo), il gesto gli permette di trovare il coraggio per iniziare il suo viaggio dantesco, libera la sua mente dai lucchetti che bloccano le porte della percezione e catapulta lo spettatore in un groviglio di sotterranei, dove realtà è immaginazione si fondono, con la seconda a prevalere inesorabilmente sulla prima. Il mondo sotterraneo e mitico dei Deros apre da li i sui ancestrali cancelli, per entrare a far parte dell’universo superficiale e mortale degli umani, confondendo la mente del protagonista e l’occhio di chi guarda. La trama, già di per se non riassumibile, si aggroviglia in un ginepraio di spirali metamediatiche, fatte di telecamere a mano, schermi al plasma per uso domestico e riprese in strada. Quello che riemerge dal sottosuolo di Tokyo, è un uomo con in braccio una Dea esangue, che ha appena esplorato le regioni meno accessibili del suo animo, e si appresta a rifocillare la sua ospite con biberon a base di sangue umano e animale. Tra citazioni cinefile (L’occhio che uccide), rimandi visivi alle sequenze dei successi dei fratelli Pang e del precursore Nakata, tentativi fin troppo riusciti di snuff movie, va pian piano dipanandosi una matassa digitale amorfa, tutta incentrata sulla potenza della lente deformante della telecamera. Il tentativo di ricreare un apparente atmosfera familiare (completi sobri, passeggiate nel centro), si scontra con i continui appostamenti nell’ombra dell’ex moglie del protagonista, che reclama la figlia scomparsa e finisce per diventarne la portata principale dei suoi pranzi e delle sue cene. La discesa nell’antro sotterraneo della metropoli giapponese, diventa così metafora neanche tanto nascosta della messa in scena di una psiche malata, quella di un uomo schivo e solitario che voleva trovare l’origine del terrore derivante da una visione, e finisce invece per trasformarsi in un barbone che si aggira per le strade ossessionato dai flash di algide creature che si muovono su quattro zampe emettendo sinistri vagiti.
Marebito è uno di quei film preziosi, da custodire gelosamente, per il quale l’aggettivo lynchiano non è assolutamente sprecato o fuori luogo, e dimostra che se ci si libera dallo stereotipo delle bambine con i capelli impiastricciati d’acqua e dalle case infestate, se si ritorna con anima e passione alle origini spirituali del genere, si può mettere fine a quel testacoda narrativo di cui si è stati vittima da Verbinski in poi.

(02/01/06)

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