MARIE ANTOINETTE
REGIA: Sofia Coppola
SCENEGGIATURA: Sofia Coppola
CAST: Kirsten Dunst, Jason Schwarzman, Steve Coogan
ANNO: 2006
A cura di Alessandro
Tavola
«THIS
HEAVEN GIVES ME MIGRAINE...»
I - MA QUALE REGINA DI FRANCIA?
Questa è la storia di una ragazza, di una ragazzina e di una piccola donna.
Questa è il ricordo di quando ancora non sei e tutti ti trattano da regina.
Questo è il gioco delle aspettative distrutte, dei
sogni rubati e dei sogni di plastica.
Questo è lo sbocciare di un fiore in bellissimo vaso che finirà in mille cocci,
sempre troppo sporgente da quella mensola.
Perchè non si tratta né di una biografia né di una
ricostruzione storica, di un’epoca o di un antico stile di vita ormai
defunto(?), non si narra di Versailles o di quella Maria
Antonietta di cui più o meno tutti hanno anche una minima/vaga/sbagliata/nonché inutile idea, tanto meno di cause scatenanti di una
rivoluzione (quella per eccellenza). Non è un catalogo di moda o un inno a
certe idee, non è richiamo e ricamo letterario. Non è James Ivory. Non è un libro di storia
dell’arte. Marie Antoinette è
un’esplosione di potenza cinematografica di cui tutte queste cose sono
solo la polvere, un pretesto d’iconografia e coscienza comune, lo stimolo
primordiale visivo e concettuale da cui attingere, trarre ispirazione. Quel
panorama fuori dalla finestra che il pittore osserva e
poi stravolge/ammazza/fa completamente suo, snaturandolo, sì, ma per andare a
creare qualcosa di completamente nuovo, dove i colori (e gli avvenimenti) al
punto giusto offerti dalla natura (e dalla storia) sono solamente il più
consono e utile confine, spesso superato, per la veicolazione
dell’Anima, di quel pensiero che assume i ritmi di colori, espressioni,
musiche e parole proprie dell’autore, dell’autrice, di Sofia Coppola, che sbriciola tutte le
verità-assunte/convenzioni per poi farcele rivedere qua e là. Lo storming aspettativo
derivante dal plot va quindi messo in secondo piano, se non annullato del
tutto, perché esso cade, direttamente, folgorantemente,
superato il logo Columbia, nei primissimi – neri - secondi del film, dove
graffia una chitarra elettrica, e il pensiero può e deve volare solamente in
due direzioni: o verso le opere precedenti della regista o, ancora meglio,
verso un punto zero, una nuova apertura di occhi che vede miglia lontano Tutto
ciò che c’è dietro, un reset emotivo che solo i migliori incipit sanno
dare.
II – MUSIC WHEN THE LIGHTS GO OUT
Nell’ordine: uno schermo nero su cui partono credits
in maiuscolo rosa shocking, una canzone del 1979 (Natural’s not in it dei Gang of Four, il cui testo basterebbe più di ogni altra cosa a
descrivere il film), “Kirsten Dunst”, un’immagine, il titolo lampante la
cui forma ricorda il logo dei Sex Pistols.
60 secondi che subito gridano stridenti, tra fascino e labirintite, orgogliosi
di quella che è la loro natura e che sarà propria del film, alienata e
bizzarra, Frankenstein
di classicismi, cromatica e non-sense, timida ma non
per questo intimidita, luccicante, strafottente e intensiva, completamente
figurativa e Mentale nei sui accostamenti, nella sua
morfologia completamente slegata da canoni, il cui battere pulsante è quello
associativo, nonché di (ri)creazione (per via)
cinematografica: vetroso e caramelloso mescolarsi, riconduzione informale e smack audivisivo che si catapulta
verso la più totale dimensione di quel sogno dove le cose si sposano per
significato e per modellazione, in quella afisicità
che rende tutto sintagmatico e incantevole (anche nell’accezione più
bambinesca del termine).
Intenzione che subito decolla in questo inizio, con quell’inserto eyeswideshuttiano
che stimola e al contempo racchiude in sé il tutto nel film: lei, tra tinte
splendenti, propriamente dolci dei vestiti, dei dolci, dei mobili e dei muri,
nel più puro far niente diviso tra il compiaciuto e il tediato, e poi un
sorrisino omnio verso il pubblico, un saluto, uno
sbuffo deridente per il trip in partenza e al contempo un piccolo sardonico
gesto di disperazione per quel colore che appare puerilmente bello per chi
guarda ma che invece nasconde qualcosa di ancora non visibile (ma udibile).
Perché il rosa e l’azzurro sono le tonalità
fiabesche della sicurezza e del calore, perché le canzoni con la loro musica e
i loro testi vanno di pari passo con la solitudine.
III – IN-VISIBILIO NEL PAESE DEI
BALOCCHI
È da quella singola in quadratura che conosciamo non quella, ma questa Maria Antonietta, che proprio qui nasce, istantanea di ciò
che sarà, spirito fluttuante di stanze e musiche.
Volendo sottintendere a poche parole significanti tutto (ma soprattutto niente)
possiamo dire che Marie Antoinette è
un film sulla malinconia adolescenziale, nel suo essere travaglio necessario
dell’esistenza, vista assolutamente come fase di passaggio, brusca e
spietata, tra l‘infanzia e l’età adulta, legata nelle conseguenze
ma sostanzialmente isolata da esse. Periodo di
capricci, desideri e sogni, prima puerili e poi surreali, di incompiutezza
di isolamento.
La situazione dipinta da Marie/Dunst/Coppola
è fatta di paralleli indissolubili tra questo e quel che riesce a offrire il connubio emo/Versailles,
attraverso un percorrere che racchiude una ritmicità delle più classiche, dalla
situazione iniziale all’inevitabile declino, passando attraverso i tipici
giri di boa. «Mia figlia Marie Antoinette
sarà principessa di Francia.» è
la frase che da subito segna il ruolo evidentemente troppo grosso che la
protagonista si trova a dover sopportare: ancora piccola, 12 anni, si ritrova
privata di tutto ciò che era la propria infanzia (le amiche, il cane…
perché sono queste le cose che contano da bambini) e si ritrova catapultata in
una vita che è paradiso e inferno ma per niente purgatorio, dove l’occhio
infantile non può che sentirsi sorridentemente
stupito ma impaurito davanti a questo stupendo paese dei balocchi dove può
avere tutto e desiderare tutto ma non ottenere niente. Folletta
incantata davanti a un quotidiano totalmente fuori
misura per il suo essere pura e fanciulla, dove lo squilibrio tipicamente
adulto tra il libertinismo/fancazzismo/qualunquismo
sfrenato fatto di sesso, gioco d’azzardo e feste (e feste e feste e
feste) e l’importanza stessa dei riti, col loro trionfo d’assurdità
e d’insulsa abbondanza, e delle cariche investite si fa troppo forte per
lo spirito fanciullo e il senso d’oppressione sormonta, assieme al
sentimento di non sentirsi adatti, di non avere la forza necessaria, di non
riuscire veramente a (voler) capire ciò che sarebbe giusto fare, costretta tra
poli opposti quali sessualità e potere nei confronti dei quali, in uno sbocco
universalizzante, tutti hanno aspettative da lei a cui non può adempiere,
ancora pupa dal desiderio giocoso, strappata via dal suo (diritto di) essere
vergine (suicida?) del mondo, un mondo del quale può solamente osservare la
maestosità ed il mistero in un “chiedersi il perché” mai risoluto,
inquietudine di un inerte sguardo ragazzino investito e stupito, che si sente
in debito ma senza possibilità d’uscita, vortice obbligato di solitudine
e malinconia, catene – indotte ma anche personali/viscerali/istintive -
con le quali può solo guardare senza conoscere veramente, stregata, stoppata
dietro un vetro (Come i ragazzi de Il
giardino delle vergini suicide nei confronti delle loro veneri bionde, come
Bill Murray che
osserva le luci di Tokyo dal finestrino in Lost in translation),
dove la sola via è quella dell’autodistruzione, dell’assopimento
della ragione, l’abolizione del tentare in un susseguirsi di situazioni
sempre troppo amare, per le quali la Dunst da bambolina si fa ninfetta, facendo sì che la propria
età dell’innocenza ormai corrotta e disillusa (dove Lux troieggiava e le sorelle Lisbon
si suicidavano) non possa far altro che evolversi in età del vizio.
Un applauso che viola il bon ton, fontane che guizzano,
cavalli nelle campagne, serene chiacchierate; ma è un’armonia lontana,
bidimensionale, sì accettabile ma atterrita dal resto.
Scarpe, vestiti, trucchi, parrucche, champagne, dolci e dolcetti, stoffe
pregiate: I WANT CANDY e tutto si fa
surrealismo da magazine e ragazzine, per cose e come, montando semplicemente/filastroccamente/goderecciamente
quel che forse è l’unico vero impeto di benessere
formale, sgorgante del puerile divertissement della
reginetta e delle sue adepte, in torpore gioioso verso
l’esaltazione/demonizzazione della merce e del capriccio che trova
godimento solo dall’abbondanza - di merce, di tagli di montaggio e
dell’infrangere della Coppola che qui raggiunge il suo big bang autoriale nell’impeto di quell’euritmia
anacronistica che già pulsava, ma qui fulmineo e fantasmagorico, sfizio nello
sfizio, ancora di (de)formazione filmica incandescente, d’impatto
idealistico e soprattutto sublim(in)a(l)mente
visivo/visionario, mettendo delle scarpe ALL
STAR in un’inquadratura, rimarcando nuovamente, e questa volta per
sempre, quel sorriso di estrema personalità, nel mettere quella che
probabilmente fu la sua adolescenza, ora Marie Antoinette che filtra come caleidoscopio irriverente che fa
di quella Versailles non più luogo di avvenimenti ma piscina dei pensieri, dei
sogni, dei pianti, della paura, della sessualità inespressa (in cui il re è suo
parallelo bambolotto maschile, posseduto dai suoi stessi giochi), della
solitudine, del luccichio dello sfizio gratuito.
IV – IL SOLE TRA LE FOGLIE
Si tratta di luce, tanta luce, che mai viene risparmiata e che mai si mette da
parte, imponente ed ingabbiante d’incanto corrompente, un po’
aldilà burtoniano un po’ casinò scorsesiano, perché la felicità è presente ma circoscritta,
tavolozza pittorica scatenata e avvolgente ma sempre e comunque artificiale,
come oggi la plastica ieri l’oro, i cristalli, la seta, le luci e i volti
stessi delle persone: tutto è gran circo di croma, ma sempre sbiadito di
pallore mattutino a volte, di accecamento quasi al neon altre, in ogni caso
lacrimante e rinsecchito, tutto sommato ideale ma essenzialmente annichilente,
per chi ha uno spirito d’infante, uno spirito di libertà, che si consuma
in pianti e silenzi, scale e panorami infiniti, nella musica dei Cure, rarefacendosi sempre più.
Tutto è al contempo paradisiaco e funereo, per un’esistenza che non è
ancora riuscita a vedere quel sole, che non qui vi è mai naturalmente, se non
per tende e riti e tra le foglie degli alberi, inseguendo l’immagine,
cercando il suo spazio, lottando contro questo suo essere costretto fuori campo
fino, per quello che è il percorso di Maria
Antonietta, per quello che è il cuore caldo del film e della scoperta di se
stessi.
È nel piccolo rompere le regole che illumina i picnic regali, è in un incontro
galeotto che guida il ritorno a casa, è nell’alba alcolica con gli amici
(o pseudo tali) che si riflette in un lago, ma è
solamente con l’avvento dell’autentico naturale, del più tipico
“miracolo della vita”, che esso trova veramente spazio, arrivando a
brillare smagliante e soave in tutta l’inquadratura: quando Maria Antonietta riesce finalmente ad avere una figlia ed è
lì che può sdoganarsi da quello che era l’unico obbligo che poteva espletare e può finalmente trasferirsi, andare a fare la
mamma, la (piccola) donna. In quella campagna può veramente assaporare la vita
autentica, senza schemi e senza obblighi: l’amore innato di una madre
verso la propria progenie in una dimensione ormai libera dove la fotografia non
è più di confetti e pastelli, ma di tiepido calore naturalistico di alberi e prati, un silenzioso brivido di leggerezza
scandito dal suono di una chitarra e non più da orchestre per gli unici giorni
in cui le cose riescono ad essere toccate per quello che sembrano, senza
cattività e senza lustrini,in assenza dei quali i capelli perdono le loro
acconciature impossibili e si fanno biondi e lunghi giù per la schiena, il vogue dei vestiti scompare per il candido e semplice
bianco.
Questa è la pace dei sensi, questo è il vero vivere di cui si sente il bisogno,
l’amore innato e la calma, il sentirsi amati e sicuri… Ma lo
sguardo di Marie si protrae verso il cielo mentre
legge, anche se quello del suo seguito rimane basso, e, dovendo indovinare
chi/cosa rappresentasse l’etichetta che aveva in fronte in un gioco di
società alla domanda «Sono qui con voi?», la risposta univoca è «no.».
Quella di Marie continua a
essere una campana di vetro indissolubile, personaggio dal destino segnato,
condanna perenne ad essere sola in mezzo a molti, reietta esistenza, sia essa
felice o no; è il buio che prevale, ed è la morte che arriva. La morte, la
morte puttana (Michele soavi/Tiziano Sclavi) della madre, dei figli, dell’amore, ma
anche di tutto ciò che era il suo mondo, una Versailles distrutta, un castello
in aria, più di marciume che di giubilio, ma sempre e
comunque meglio della realtà, realtà dalla quale è
sempre stata distaccata, prima bambina e poi privilegiata sognatrice, ma che
torna e irrompe, ancora una volta, come in The
dreamers, da una fenetre
francese. Lei si inchina alle persone reali, e
riaffiora alla mente il pensiero di quella Cronaca
di una morte annunciata che voleva essere la nostra visione prima che
iniziasse.
Ma anche no, anche se la morte c’è. Lo sterminio
dell’adolescenza, la distruzione della nostra reggia aspaziale
e atemporale, la morte della giovinezza, adempiere di
doveri che si rivendicano in rivolta improvvisa/bastarda e troppo grande,
nonostante sia stata sempre lì a sussurrare, ma non c’erano i modi e la
voglia di ascoltarla prima da parte di Maria
Antonietta; defunta non alla ghigliottina, ma nell’istante in cui è
quella stessa camera che ce l’aveva presentata
nel suo tediato splendore ad essere totalmente distrutta, sfasciata, in pezzi.
Perché il mondo in cui cresciamo è e vuole essere di finzione, in pianti e
paure necessarie, perché spesso il vero irrompe infuriato, ma lei, e noi, non
possiamo averne colpa. Ma questo deve, e tutto ciò che
viene dopo è un’altra storia.
Si può dire che Sofia Coppola abbia
fatto con la figura di Maria Antonietta quel che il
padre aveva fatto con Cuore di tenebra:
pensieri, pensieri liberi, quasi dislocati dalla loro formalità narrativa, dove
il testo di partenza è semplice trampolino e il Cinema stesso si fa astratto,
organico di simboli ed emozioni direttamente vomitate nel fluire in piena del
loro senso visivo. Un viaggio nel Vietnam, i momenti di una regina bambina, in
cui le regole vengono strappate, in cui tutto è
emozione, tutto è una spinta a tenere gli occhi spalancati; doccia di
colori/espressioni/intuizioni/sbalzi autoestratti e cineastratti che discioglie la pelle e mostra
l’animo, il midollo che fantasmagorico riesce a essere fotografato nella
più reale e autentica forma di irrealtà, dell’amaro delirio adulto
liberatorio di uno e del dolce piangere solitario dell’altra.
(27/11/06)