MATCH POINT

REGIA: Woody Allen
CAST: Jonathan Rhys-Meyers, Emily Mortimer, Scarlett Johansson
SCENEGGIATURA: Woody Allen
ANNO: 2005


A cura di Sandro Lozzi

«CHE MONDO!»

«Il mio successo deriva dalla fortuna». Parola di Woody Allen, che in oltre 50 anni di carriera artistica non ha mai tralasciato di evidenziare come l’uomo sia in ben poca misura artefice del suo destino, e come invece quest’ultimo sia indissolubilmente legato al caso. Quando la pallina da tennis sbatte sul nastro, la bravura dell’atleta può non bastare a farla cadere dalla parte dell’avversario, come spiega l’incipit di un film che da subito propone come sottotesto principale la contrapposizione tra fortuna e talento. Dalla competizione sportiva alla vita, il passo è breve: trovarsi nel posto giusto al momento giusto è molto più redditizio del talento in sé e per sé.
Se, nel 1988, un viaggio nelle principali città d’Europa aveva fornito ad Allen, come racconta Eric Lax nell’introduzione della mono-biografia Woody Allen (New York, 1991), l’ambiente e l’ispirazione giusti per buttare giù la prima stesura di Crimini e misfatti – il film in cui veniva maggiormente alla luce il pessimismo cosmico del regista newyorchese – ecco che è di nuovo nel tanto agognato Vecchio Continente che Allen riesce a tirare fuori il meglio di sé e di quel cinismo esistenziale da cui prende vitalità e vigore non solo la sua ironia, ma tutta la sua visione della vita. Ed ecco perché Match point è un film perfettamente alleniano, pur senza quelle battute che sono citate in qualsiasi raccolta di aforismi, pur senza lo yiddish, senza la psicanalisi, senza New York: perché nasce dallo stesso pessimismo cosmico da cui scaturisce l’ironia che ha fatto la fortuna (è quanto mai il caso di utilizzare questo termine) dell’artista. I veri temi centrali del discorso che Allen porta avanti da sempre si ritrovano tutti nella sua ultima opera, primo fra tutti l’incomunicabilità, che dava vita a spietate gag nei suoi primi film comici (come quella del messaggio in banca, scritto male e incomprensibile, di Prendi i soldi e scappa), e che qui viene esasperata fino ad intersecare tutte le linee di relazione tracciabili tra i protagonisti della vicenda: Chris non riesce a mollare una tra Nola e Chloe, Nola non riesce a comunicare la passione che ha dentro ai provini, l’anziana vicina di casa di Nola è isolata nel suo appartamento, la signora Hewett quando beve diventa inopportuna, persino l’ispettore Dowd ha delle difficoltà a comunicare con i suoi uomini, con la scientifica e con la stampa, sul luogo dell’omicidio.
Chi invece non ha nessuna difficoltà a comunicare è proprio Woody Allen, che si mantiene fedele al proprio stile, essenziale ma – come lui – silenziosamente rigoroso e preciso: ricerca sempre la traduzione visiva diretta di quello che pensa/vuole dire, nell’incipit come nelle altre scene; riprende per primi piani le conversazioni-chiave, così come in primo piano erano ripresi i due protagonisti nel finale di Crimini e misfatti, ma anche di Manhattan; scala i piani e i campi in modo da seguire sempre il ritmo del montaggio, dell’azione e del pathos; soprattutto, gioca puntualmente con i tempi delle inquadrature (uno dei pochi effetti comici della pellicola è ottenuto “allungando” l’inquadratura di Chloe con il termometro in bocca; Allen, da bravo cineasta comico e seguendo le lezioni dei suoi predecessori, da Buster Keaton ai fratelli Marx, ha sempre dato grande importanza alla dimensione ritmica e temporale degli elementi filmici) e con le entrate e le uscite dei personaggi e degli oggetti dal campo. Inoltre, Allen fa tesoro di oltre 35 anni di carriera cinematografica a fianco di ottimi collaboratori, per riprendere l’Europa in una maniera non (enfaticamente) grandiosa (alla Visconti, per intenderci), ma elegante e raffinata, quasi a volerla portare indietro nel tempo di una sessantina d’anni, proprio come aveva fatto con la Manhattan del 1979.
L’omaggio all’Europa, che ama e a cui è legato “genealogicamente”, si snoda attraverso una folta serie di citazioni, da Sofocle a Dostoevskij, da Dalì ai grandi operisti italiani e non solo, ma è addirittura impressionante la mole di citazioni e riferimenti cinematografici sparsi su tutta la pellicola: da Ejzenštein (il montaggio delle attrazioni, si pensi al parallelo tra la pallina e l’anello) a Welles (il decoupage del piano sequenza, l’utilizzo della controluce, e inoltre una – non so quanto voluta – citazione esplicita nell’immagine di un bicchiere di vetro in primo piano mentre l’azione si sviluppa nella profondità di campo, nell’ufficio di Chris), dal pessimismo di Bergman al Renoir de La regola del gioco (tutte le scene nella tenuta di campagna e con i fucili da caccia – che saranno poi arma del delitto – oltre ad alcune tematiche; del resto proprio Renoir e Bergman sono da sempre i cineasti preferiti da Woody). Per non parlare di come Allen ribalta tutte le teorie di Hitchcock sulla suspense, mostrandoci un indizio che ci porta a subire tensione per un finale che riteniamo inevitabile (solo lo spettatore ha visto che l’anello non ha passato la ringhiera; in questo modo, Chris è convinto di essersi sbarazzato di tutte le prove, mentre il pubblico sa che quell’anello prima o poi sarà raccolto da qualcuno), e che invece sarà evitato proprio grazie ad un evento casuale: il delitto perfetto può esistere, se si ha fortuna, e non c’è giuria che possa avere abbastanza talento da porre rimedio alle macchinazioni del destino.
“Che mondo!” esclama il detective che si occupava del caso, ormai chiuso, e in due parole c’è tutta la filosofia alleniana. Se è vero che l’opera va amata non per, ma attraverso, il suo autore, allora non si può non amare alla follia Match point, perché in Match point c’è tutto quello che Allen ha sempre fatto, e tutto quello che avrebbe sempre voluto fare.

(18/01/06)

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