LE MELE DI ADAMO
REGIA: Anders Thomas Jensen
CAST: Ulrich Thomsen, Mads Mikkelsen, Nicolas Bro
SCENEGGIATURA: Anders Thomas Jensen
ANNO: 2005
A cura di Davide Ticchi
HOMO HOMINI LUPUS
Chi ha mai sostenuto o sostiene che l’unica via d’uscita dal male
assoluto e dalla dissoluzione sia Dio, la sua luce, la sua immensa bontà. Chi
identifica nella fede lo strumento supremo di redenzione dalle colpe commesse e
dai mali del mondo. E chi invece, contrapponendosi a tutto ciò, delle milioni
di persone morte durante la seconda guerra mondiale ne fa una filosofia di
vita, una speculazione tradotta in ideologia neonazista, che aiuta ad andare
avanti in questa vita amara. E questo è il caso di uomini duri dentro e fuori,
che ci capita di incrociare talvolta per la strada, con le loro uniformi nere
piene di odio e schifo verso questo mondo di mezze tacche, di mezzi uomini che
si barcamenano nella loro vita da conformisti, innocui per il prossimo, e poi,
magari, indirettamente diabolici sui loro campi di battaglia: lavoro, famiglia,
amicizie. Ebbene gli uomini neri, che ci capita a volte di incrociare per la
strada, non hanno quasi mai paura di chi potrebbero scontrare mentre passano
veloci come mastini da combattimento, e spesso li si sente citare proprio nei
telegiornali o sui giornali, per aver fatto un po’ di quella che loro
amano chiamare “pulizia razziale”. Questo perché di gente inutile e
indegna di stare al mondo ce n’è troppa secondo il loro modo di pensare e
agire, e per questo eliminarne una parte non può che giovare a tutti, proprio
come pensava Hitler. A differenza di lui però, oggi
queste persone vivono in un mondo che non tiene nemmeno più conto di razze e
colori, perché ha altro a cui pensare, a cui volgere lo sguardo, come
l’economia globalizzata ad esempio, e perciò i
neonazisti tengono sempre con loro l’immaginetta
“sacra” del loro amato Fuhrer, come i comunisti portano quella di
Stalin. Ma il tempo per fare ancora caso a queste particolarità ormai ci è alle
spalle, se prendiamo l’estetica di un naziskin dei nostri giorni, la
prima cosa che ci suscita è il sorriso, poi la consapevolezza che comunque
regni in lui uno sconforto, scaturito dall’incomprensione di chi gli
passa velocemente a fianco per la strada, dal saper bene di non essere il solo,
ma di far parte in ogni caso di una razza estinta e in fase di
riorganizzazione, che si fa lo scalpo a vicenda e che ama solo la violenza.
Tutta questa premessa per mettere bene in luce la natura del terzo film di un
noto sceneggiatore danese come Anders Thomas Jensen (Il re è vivo, Mifune, Open Hearts, Non
desiderare la donna d’altri), ovvero quella violenta, tragicomica,
propria di chi sperimenta per le prima volte attivamente il mezzo Cinema, e lo fa
con un soggetto in grado di scollare e ricomporre il puzzle ormai
cristallizzatosi nell’immaginario collettivo, per cui Dio agisce da Dio e
il Diavolo da Diavolo. Infatti il dovuto ringraziamento che gli facciamo, a
parte tutto, è quello di permetterci di scrivere quello che abbiamo appena
espresso dopo una visione di un film che verrebbe subito considerato di
nicchia, etichettato come indipendente low budget, e
perciò una sottomarca del cinema che normalmente affronta questi temi con il
lauto supporto degli effetti speciali e dello stile videoclipparo.
Il grande merito di Jensen,
innanzitutto, è quello di folgorare lo spettatore con vere e proprie azioni
improvvise di violenza inaudita di tarantiniana o hanekiana memoria, che sovvertono la normale percezione
immagini/senso dello spettatore contemporaneo, abituato troppo facilmente a
logiche causa/effetto semplicistiche, prive di reale ispirazione. Invece la
grande visionarietà, supportata da un raffinato minimalismo tipico di un certo
cinema nordeuropeo, oltre a rimandare alla cultura protestante di paesi
alienanti come la Danimarca, viene tradotta come e quando il regista vuole in iperviolenza surreale, onirica, anche nonsense,
che mal s’innesta nella narrazione degli eventi, e proprio per questo sa
spiazzare. La metodologia, lo abbiamo visto in altri film di recente fattura
come A history
of violence, Caché, Luci nella notte e Due volte
lei, si rifà ad un archetipo ben rodato, che consiste nel categorico
inserimento di violenza in contesti apparentemente ordinari, costellati di una
qualsivoglia apparente felicità. In realtà ne Le mele di Adamo questo modello è
stato modificato proprio alle sue radici, dove si insinua una certa ironia di
fondo tipica delle black comedy, oppure anche un pressante sintomo di ambiguità
dialogica che rimanderebbe all’ambito del noir. Tutto questo gioca in
favore di un fattore sorpresa che non si fa troppo attendere, la violenza si fa
anticipare, prevedere, ma scoppia proprio quando meno ce lo aspetteremmo, in
quella comunità ecclesiastica di recupero che ormai sembra essere diventata una
gabbia di matti. Il protagonista, Adam, un neonazista vissuto che deve
abbandonare la propria banda per entrare a far parte del gruppo guidato dal
pastore Ivan, non fatica a dimostrarsi ostile a qualsiasi tipo di approccio
interpersonale da parte dello stesso ma anche dei suoi nuovi compagni di vita.
Ama rifiutare la parola di Dio infusa attraverso Bibbie ed altri testi sacri a
lui provvisti, appende al muro la fotografia del Fuhrer pronto a parlare alla
gente, tace, assume un espressione torva e minacciosa, e decide che il suo
obbiettivo da lì alla fine del soggiorno obbligato sarà quello di preparare una
grande torta di mele, con le mele del giardino. Ivan sembra soddisfatto, è
sicuro che anche Adam troverà la strada verso la salvezza, ma attraverso quale
dio questo avverrà? Sappiamo se Ivan dice il vero, o se tutto è frutto di
un’invenzione che nasconde sangue, morte e violenza? Adam sembra
possederla, sembra esserne portatore sano, ma esisterà un modo per riuscirlo a
convertire al bene immanente, che non richiama per forza al mondo spirituale e
alla fede? Jensen
riesce a dare una risposta sorprendente a tutte queste domande con
l’esclusivo supporto di immagini e suono, ci mostra miracoli, drammi umani,
sofferenze disturbanti, verità apparenti e speranze vanamente felici. La
felicità più che apparenza è illusione, sembra volerci suggerire il regista,
illudendoci di qualcosa che non esiste ci creiamo dei presupposti per cui vale
la pena vivere, ma è anche subito pronto a materializzare tutti questi inganni,
queste convinzioni infondate con le quali ci toccherà fare i conti alla fine,
nel modo più doloroso possibile. E allora sembra non vigere il discorso
razziale, razzista, nazista e comunista, davanti ad una pistola reagiamo tutti
nella stessa maniera, di fronte alla violenza siamo in ugual maniera spettatori
inermi, tutto il resto è pregiudizio, cancro sociale ormai diventato globale.
La verità svelataci da Jensen
è che siamo tutti sconfortati e spaventati dalla stessa cosa, la violenza
appunto, ma ognuno di noi reagisce ad essa in maniera diversa, chi la pratica
per farsela amica, chi la subisce per non temerla più per un po’. Per
questo l’aspetto più velatamente grottesco è che sia il neonazista Adam
che il pastore protestante Ivan sono vittime della violenza alla stessa
stregua, senza santi o demoni questa violenza incorporea prima o poi colpisce
tutti, moralmente, fisicamente, anche sentimentalmente. Quindi anche se nella
nostra società si preferisce volgere lo sguardo oltre certe persone, oltre
certi avvenimenti che ci perseguitano e a cui non vogliamo dare sfogo, sappiamo
che quelle persone che preferiamo non incontrare ridono per non piangere,
uccidono per non essere uccise e credono in un Dio buono per non morire sotto
lo sguardo di uno cattivo. Come dire che tra Dio e il Diavolo, non c’è
poi tanta differenza.
In parte ottimista e in parte pessimista, per quest’opera
di Jensen
resta alquanto inadeguata ogni aggettivazione o peggio catalogazione, come del
resto per molte delle sue sceneggiature. Bene interpretato dai comprimari e
ambientato in paesaggi che rimandano ad un gusto naif dei contorni, ne Le mele
di Adamo il dualismo semantico commedia e orrore ricorre come in altri rari
esempi cinematografici di livello. Questo film, ne è uno che scuote.
(15/05/06)