MEMORIE DI UNA GEISHA
REGIA: Rob Marshall
CAST: Zhang Ziyi, Gong Li, Michelle Yeoh
SCENEGGIATURA: Doug Wright, Robin Swicord
ANNO: 2005
A cura di Pierre Hombrebueno
FALLIMENTO AL SECONDO ROUND
Esordisco citando l’incipit del nostro Luca Lombardini riguardo
Goodnight, and goodluck di George Clooney:
“Quando una giovane band raggiunge il successo con il suo primo album,
produttori, fan e critici musicali, iniziano a pensare a come potrà essere la
seconda prova del gruppo. Nell’ambiente discografico infatti, il secondo
disco viene considerato come il più difficile di tutti, perché deve confermare
le potenzialità espresse nell’esordio, ma allo stesso tempo deve lasciare
intravedere segnali di evoluzione e maturazione di un sound, che altrimenti
rischia di diventare troppo ripetitivo”
Il secondo lavoro quindi, sia nella Musica che nel Cinema, è l’attesa
conferma o smentita riguardo le reali potenzialità di un’artista. Nel
caso di Rob Marshall, è senz’altro una smentita, in quanto Memorie di una
geisha rivela tutte le incapacità registiche del coreografo, della sua
negazione nel riuscire a creare immagini.
Ma possiamo tranquillamente ripercorrere le due pellicole di Marshall per
capire le motivazioni del miraggio Chicago, che era ed è effettivamente un
buonissimo musical dall’impianto classico, un piccolo gioiellino
d’inizio secolo.
Ricordiamoci innanzitutto che Marshall è un coreografo, e il suo è facilmente
connotabile come un “Cinema di coreografia”, ovvero espresso
tramite i corpi degl’attori e la musicalità della colonna sonora, che si
rivela essenziale. Memorie di una geisha insiste quindi sulle etichette
fisiche, sul modo di camminare di una geisha, sui suoi leggiadri movimenti
fantasmagorici, su come si deve sedere, alzare, ecc..
La macchina da presa mette in quadro molti dettagli, cogliendo quei piccoli
particolari allegorici del linguaggio mimico di queste misteriose donne
giapponesi, messe in vita da un cast femminile che offre il meglio del panorama
asiatico attuale, in primis Gong Li, attrice per eccellenza di Zhang Yimou
nonchè indescrivibile divinità la cui bellezza e sensualità stordisce lo
schermo.
Marshall, proprio come in una coreografia, guida quindi i suoi corpi passo per
passo, accompagnati e ritmati dalla musica orientalizzata di John Williams e
regalando agli spettatori diverse scene d’impatto pittorico nella cura
per la fotografia e scenografia, frutto di nomi quali Dion Beebe (direttore
della fotografia di Collateral) e
John Myhre (scenografo di Elizabeth),
passando per il montaggio del nostro Pietro Scalia preferito, sempre fluido
nella sua piena padronanza della grammatica filmica e gestione temporali (per
esempio, le scene d’addestramento della protagonista, riassunte in un
grande collage stile quasi video-clip).
Arriva dunque la scena più affascinante dell’opera: il debutto come
solista della protagonista Sayuri. Lei, pallida come la farina sul palco,
mentre danza con l’ombrellino sotto i fiocchi bianchi. E’ un
momento molto suggestivo in quanto è assistere prettamente alla
teatralizzazione estrema di un cliché dell’immaginario giapponese, ovvero
quello della donna in kimono con l’ombrello sotto la neve (ricordiamo il
capolavoro Lady Snowblood), che si prefigura iconograficamente nel personaggio
elegante e sensuale della geisha (non una cortigiana, ma l’arte in carne
ed ossa, come insiste il personaggio interpretato da Michelle Yeoh).
Ma non è un caso se il momento migliore del film sia proprio un balletto
musicale, e la valenza diventa emblematica: Rob Marshall diventa grande solo
quando deve gestire ballerini su un palco, in quanto sa solo mettere in scena
coreografie. Per questo Chicago fu una vittoria, perché è un musical teatrale
che si svolge in un palco dove la Zeta Jones o la Zellweger ballavano il loro
jazz rievocando le atmosfere retrò della Hollywood che fu.
Superata la barriera della bellissima estetica (frutto più dei tecnici di
contorno che di Marshall stesso), e la bellissima scena del balletto, è facile
rendersi conto della pochezza e della mediocrità con cui il regista(regista?)
tratta i sentimenti, ovvero il cuore pulsante dell’opera.
Memorie di una geisha, infatti, si basa soprattutto sull’Amore, che è
causa e movente di tutta la narrazione, ma è un’amore che in Marshall non
si traduce mai in immagini, bensì in parole: “Ti amo” “Ti ho
sempre amato” “Battilapescaeccecc..”. Non vedremo
un’unica scena dove a parlare saranno invece le immagini, dove sarà la
messa in scena a sprizzare le interiorità pulsanti dei protagonisti; in un
certo senso, non è Rob Marshall che adatta il romanzo di Golden Arthur, bensì è
il romanzo di Golden Arthur che adatta Rob Marshall, che non ha ancora la
sensibilità e le capacità per una traduzione inter-semiotica che trasformi le
parole lette in immagini in movimento (ecco il motivo dell’uso massiccio
della voice off, per esempio).
Il senso e il livello di significazione vengono dunque travolte, il cuore è
strappato nonostante la cura della superficie visiva; Marshall stesso è
travolto, sia dal suo (eccellente) staff tecnico che dal (meraviglioso) libro
da cui trae. Viene dunque a galla ciò che aveva precedentemente nascosto
Chicago: il dilettantismo di Marshall, incapace di gestire le genialità dei collaboratori
tecnici più esperti di lui e limitato in un lavoro che non è il suo; il
risultato è un’opera che dovrebbe essere emotiva ma che diventa
letteraria-teatral-coreografica, e per quanto le lettere, il teatro, e la
coreografia siano eccellenti, i sentimenti volatilizzati spengono il valore
filmico e la passione.
Tutto ciò ci fa pensare che forse sarebbe stato meglio un Memorie di una geisha
in versione musical. Ma forse, anche no. Sappiamo solo che il creatore di
Chicago dev’essere ridimensionato, aspettando(?) il suo terzo lavoro, che
speriamo avrà più consapevolezza registica, e non solo coreografica.
(17/12/05)