MIAMI VICE
REGIA: Michael mann
SCENEGGIATURA: Michael Mann
CAST: Colin Farrell, Jamie Foxx, Gong Li
ANNO: 2006
A cura di Alessandro Tavola
IO HO I SOLDI
Mann torna alla sua prima(ria) creatura di
ormai quasi 30 anni fa, quell’influenzante e
influenzato gioco di guardie e ladri, emblema e manifesto ancora oggi attivo di coolness e fashion
poliziesca che chiudeva gli anni settanta e proiettava verso i modernismi
successivi, che furono propri di Mann stesso, splendendo nella sua filmografia, rendendolo
uno di quei pochi registi americani capaci di fare cinema maiuscolo e al
contempo attuale, sempre brillante ma mai frivolo. A due anni dai magici digitale e macchina a mano di Collateral che riuscivano a
descrivere tutto lo spirito amaro di una metropoli e a undici da Heat e il suo
oscuro, architettonico duello urbano di persone e luoghi, oggi Miami vice sarebbe potuto essere il
concludersi ideale di quest’ipotetica trilogia.
Ma tutto ciò non accade.
Esaltazione basilare nel pensare a una mente
visionaria che ritorna ad attingere ad un lago da lei creato, andando a
preparare un piatto che, visti gli ingredienti, faceva sperare in molteplici gioiellini audiovisivi presumibilmente almeno (ben)
ricalcati e (piacevolmente) autoreferenti, sapore
cinematografico fatto di questa o quella caratteristica stimolante appagante,
ma invece ci si ritrova con una torta di polistirolo, labirintico per le
papille.
Non propriamente di una delusione, ma una totale estraniazione dalle aspettative e dall’organico stesso del film, che,
partendo dallo splendore ormai affossato della serie originale negli anni ormai
somatizzata e normalizzata dalla moltitudine di prodotti a lei similari, pone
dubbi già in partenza, non solo nella trama come viene mostrata, futile e
accademica, più simile a un canovaccio basilare di un qualsivoglia telling di poliziotti infiltrati che a una voluta
semplificazione della storia come scheletro di pensieri momenti visivi (si
basti pensare che anche le storie delle due opere sopra citate potrebbero essere
riassunte in poche righe), ma soprattutto (non) esprimendo emozioni e
caratterizzazioni che non trovano alcuna valvola di sfogo, in nessun esprimersi
linguistico, sia verbale che visivo, lasciando che ogni personaggio ed evento
sia alla soglia della lobotomia, pattume di parole ed
espressioni, più barzelletta da sfilata di moda che stereotipo del genere, una
caratterizzazione monodimensionale fatta di frasi
fotocopia e convenzioni sceniche delle più televisive (nel senso più attuale e
negativo).
Pare esserci una totale mancanza di messa a fuoco da parte di Mann, nelle sue
idee intrinseche e formali; pare di vederlo con le mani impiastricciate nel
cercare di plasmare i pixel dell’opera, ritagliando grossolanamente
immagini da Cosmopolitan Vogue
Men’s healt,
accostandoci playlist da MTV usa, usando come colla(teral) industriale l’estenuante (ri)utilizzo
di camera a mano e notturne luci al neon, senza vere (re)ispirazioni.
Rimanendo che i protagonisti esistono solo come poster da ragazzina e sogno da
casalinga anni 80, manichini dai capi griffati, capelli laccati e battute dure,
dei Van Damme ben
vestiti (sempre in maniera diversa), più indossatori che attori, più
spendaccioni che (anti)eroi; le vicissitudini hanno
un’anima fatta di cartoline e cataloghi di agenzie
viaggi, tra superville e riprese aeree, aperitivi raggiunti in motoscafo
– Andiamo a Copacabana a bere qualcosa –
supertraffici, e soldi soldi soldi.
Mann
probabilmente s’è (s)montato la testa, con la maestria dispersa in una
nuvoletta di fumo o uno sbuffo di cocaina, realizzando una cozzaglia
di scene, persone e parole riconducibili, per ogni loro caratteristica ad un
unico simbolo: $, perché se il vizio del titolo è proprio il fantasma del soldo
è lo stesso film ad esserne vittima: budget sfarzosissimo (130 milioni di
dollari) senza fini visivi o costruttivi ma meramente legati all’idea di
BUZZURRO ARRICCHITO, cioè chi si ritrova con così
tanto denaro (senza magari sapere come) che il mostrare di avercelo diventa il
motivo di esistenza dello stesso. De tipo: «Salve, sono un film costato molti
soldi e racconto di gente che ne ha e cerca di farne altri, che muove tantissima droga, che guida macchine costose
indossando vestiti fighi e costosi pure loro,
spostandosi da una villa all’altra, mentre parlano di… ehm…
ah sì, soldi. Non sono spettacoloso perché tanto costo
così tanto che non ne ho bisogno, non ho personaggi con un cervello perché sono
così occupati a leggere un copione ingiallito e a perlare
di cifre che tanto non ne hanno bisogno». Uao.
E succede così che il fatto che Farrell e Foxx siano
poliziotti infiltrati diventa unicamente una postilla nei confronti del delirio
assatanato, (assenza di) cuore pulsante del film, lasciando l’unica
spettacolarità al parlare di cifre stesso e non alle immagini: il continuo
riquadrare digitale e tremolante non arriva a voler dire nulla e ad annoiare
nel suo essere sempre uguale e apatico verso i colori, i colliri e gli umori,
quasi offensivo per la propria pochezza, nel suo essere prettamente
“buttato lì” o più precisamente “a cazzo”,
nella costanze mancanza di enfasi attoriale e visiva,
fatta di inespressività e mero abbigliamento. Nessuna matrice bellica o
avventurosa riesce a respirare, il gusto guerrigliero ha vita solo in poche
occasioni, crude, micidiali, efferate, dolorose, realisticamente documentaristiche oltremodo, ma anch’esse attanagliate
da un montaggio d’inerzia e senza spirito, come tutto il film.
Occhio che rimane imbambolato fino alla fine, convinto di aver assistito a
Niente per più di due ore, se non a uno spreco imperterrito di cinema e di
tutto ciò che lo compone, ad un graduale affievolimento di speranze e una
ripetuta negazione di amore Mannaro.
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