MOEBIUS
REGIA: Gustavo Mosquera R.
CAST: Guillermo Angelelli,
Roberto Carnaghi, Annabella Levy
SCENEGGIATURA: Pedro Cristiani, Gabriel Lifschiltz
ANNO: 1996
A cura di Stefano Coccia
UN NASTRO CHE SCORRE ALL’INFINITO
Mistero. Strane cose accadono nella metro di Buenos Aires, da quando una delle
linee è stata ampliata. È un evento in particolare a preoccupare le autorità,
l’inspiegabile sparizione di un intero convoglio, che è partito dal
capolinea ma non ha mai completato la corsa. Pare quasi essere stato
inghiottito dal nulla. Né i vagoni, né i passeggeri, né il conducente sono più
ricomparsi. Eppure, da quando lo strano incidente ha avuto luogo, segnali non
ben decifrabili di una possibile presenza continuano a ripetersi lungo la
linea: i semafori che agli incroci dovrebbero dare il via libera
improvvisamente impazziscono; passano dal verde al rosso senza apparente
motivo, come se stesse per passare un altro treno; ma sui pannelli di controllo
della centrale non vi è alcuna traccia che confermi quel passaggio, mentre i
macchinisti e alcuni dei passeggeri bloccati all’incrocio riescono
persino a sentire il classico rumore del convoglio in arrivo; senza però
vederlo passare.
Intanto, sta di fatto che un po’ di gente è sparita. Decine di persone
che non sono più scese da quello che i dirigenti della compagnia, insieme a una
parte del personale, cominciano a considerare una specie di treno fantasma.
Quegli uomini sono… “desaparecidos”!
Scomparsi. Fa un certo effetto accorgersi che una pellicola dai contorni Sci-Fi
come Moebius
(1996), orientata per lunghi tratti verso una “detection” in bilico
tra noir esistenzialista e fumetto alla Nathan Never, alluda comunque all’Argentina della
dittatura e dei desaparecidos, nei cui confronti la
sceneggiatura non lesina sottili riferimenti metaforici. Merito del coraggio e
delle capacità rivelate dal regista Gustavo
R.Mosquera, docente alla Universidad
del Cine di Buenos Aires, e dai suoi allievi. Il film, costato meno di 250.000
dollari, venne infatti prodotto all’interno di un progetto che coinvolse
45 studenti dell’ultimo anno, ed i numerosi riconoscimenti ottenuti a
livello internazionale dalla pellicola ebbero presto una ricaduta positiva: sia
sugli studenti direttamente coinvolti nella realizzazione, molti dei quali
poterono facilmente inserirsi nell’industria cinematografica del loro
paese, che sulla stessa Universidad del Cine, che nel
periodo successivo a questo piccolo grande successo vide aumentare il numero
dei propri iscritti.
Andando oltre l’eccezionalità produttiva che contraddistingue Moebius, il film
trae il suo fascino, la sua magia, non soltanto da una sceneggiatura che
delinea situazioni assai intriganti accumulando suggestioni di natura politica,
metafisica, (para)scientifica, e tipici percorsi di genere. Vi si intravvede anche una certa sapienza nel portare i molti
spunti interessanti dello script in locations idonee,
ambienti che aspirano ad essere dei “non luoghi” in quel lento e
inesorabile decomporsi, che li porta ad allontanarsi dalla loro funzione
originaria, a isolarsi dal contesto. Domina ovunque un certo gusto del
fatiscente, del mondo post-industriale alla deriva. Ma per arrivarci dobbiamo
seguire il percorso del protagonista. Già, perché i misteriosi fatti accaduti
nella metro di Buenos Aires hanno finito per generare attriti tra i vari
potenti, quei burocrati la cui espressione tetra, volgare e accigliata non
lascia spazio a illusioni sul loro conto, e che si spartiscono domini e
competenze sia in quel mondo sotterraneo che in superficie. Così un giovane
studioso dall’aria molto determinata si trova quasi per caso ad essere
incaricato di investigare sullo strano caso. Si chiama Daniel Pratt. Il cognome puzza di fumetto lontano un miglio.
L’aspetto, con quella specie di impermeabile tenuto perennemente
slacciato e una maglietta logora e strafottente sul torace, lo aiuterebbe a
trovare una degna collocazione in qualche albo della Bonelli.
Il Pratt in questione è un topologo,
ovvero un matematico abituato a studiare i luoghi da una prospettiva
particolare, quella di chi si interessa alle proprietà di figure e forme che
non cambiano di fronte a determinate deformazioni. Il passaggio dalla teoria
alla pratica, che lo vede alle prese con quel paradosso spazio-temporale su cui
gli altri non riescono a fare nemmeno un’ipotesi, si compie attraverso un
percorso tortuoso e avvincente. La “detection” si trascina in una
ricognizione di quei “non luoghi” stagnanti che rischiano di
confondere la logica e le capacità intuitive del protagonista: la metropolitana
non funziona più come dovrebbe, ha perso sicurezza e credibilità.
Dall’ufficio del dirigente di turno arrivano al giovane solo richieste
sempre più nervose e sgarbate di accelerare i tempi dell’inchiesta,
perché la stampa ha cominciato ad interessarsi del caso, mentre altri burocrati
riuniti in commissione si preparano ad una ispezione. L’archivio dove si
supponeva che fossero custoditi i progetti della nuova linea è una Babele
inutile, nei cui scaffali ammuffiscono vecchie carte, laddove sono proprio quei
fascicoli divenuti preziosi a mancare all’appello. La ricerca si sposta
prima all’università, in un’aula che sembra cadere a pezzi, e poi
nell’appartamento vuoto di uno degli autori del progetto, quel matematico
misteriosamente scomparso da giorni, che era stato precedentemente professore
di Pratt all’università. Il giovane trova
comunque alcune tracce che lo portano a concepire un’ipotesi
apparentemente assurda, ma coerente con i principi matematici, anzi topologici,
che ha introdotto nell’indagine. I lavori per il completamento della
linea circolare… La sparizione dello studioso incaricato di
progettarla… La metropolitana che diventa così un sistema chiuso…
Lo stabilirsi di un paradosso spazio-temporale… un treno che scorre
all’infinito in un’altra dimensione… Sì, è la figura conosciuta
come “nastro di Moebius”, la possibile
origine di tutto ciò!
Al nostro Daniel Pratt non resta che mettere alla
prova le sue teorie in modo empirico, calandosi nuovamente nelle gallerie della
metro di Buenos Aires. Non a caso lo vediamo sostare in una stazione che
riporta il nome di Borges, fonte di metafisiche
inquietudini. Oltre ai piccoli enigmi suggeriti dalla sceneggiatura, solo in
parte ispirata al racconto di A.J. Deutsch A Subway Called Moebius (1950), è proprio il modo suggestivo di
rappresentare gli elementi claustrofobici,
conturbanti e ipnotici di un simile universo sotterraneo a giocare in favore
della pellicola. Come abbiamo notato anche in un sorprendente film uscito quest’anno, Kontroll dell’ungherese Nimrod Antal, gli ambienti della metropolitana
ben si prestano a chi coltiva intenti metaforici e distorte aspirazioni noir.
In più, le luci al neon delle stazioni e i treni in arrivo da gallerie perse
nell’oscurità sembrano necessitare da sempre di qualche regista ispirato,
che sappia come muovere la macchina da presa in quegli spazi, come saturarli
impastando suoni stridenti e ritmi musicali. Le riprese fredde e geometriche di
Moebius
vanno anche in questa direzione, così come il giovane Daniel Pratt si avvia ad una possibile soluzione del mistero.
(15/04/06)