venezia 2017 - in sala

Mother! di Darren Aronofsky: (allergic) to thoughts of mother earth?

 

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Prima di tutto, diciamo un bel no. No, madre! non è quella sòla di cui tanto si bercia in giro (da Venezia in poi), un canto del cigno (!) ombelicalmente involuto, il prodotto abortito delle manie di gigantismo di Darren Aronofsky e via elencando; manie, vizi, virtù, idiosincrasie, tematiche, paure soprattutto, incanalate tutte, nessuna esclusa, in questo dibattutissimo, fischiatissimo, scandalosissimo, controversissimo madre!.

Nonostante, sì, Aronofsky si sia in effetti abbandonato a braccia e cuore aperti a un’impresa suicida, ma che sarebbe atto intellettualmente narcolettico e facilone bollare come il delirio smisurato, in senso negativo, di un Ego ipertrofico e tracimante. Semmai, è il cinema – o, forse, semplicemente, purtroppo, in parte, la critica – a essere oggi troppo piccolo per lui, troppo paradossalmente ristretto nelle possibilità dispersive del virtuale e in quelle conformate al (e conformiste) del manualetto poetico, per potersi fare cassa di risonanza oscura e profonda di un progetto istintuale così ardente di personalità autoriale e così rovente di vissuto emotivo – cinque giorni di scrittura, un “urlo alla luna”, una fiammata che brucia violenta in due ore lampo, di getto, di netto – da esser capace di conglobare la summa dei feticismi di colui che l’ha partorito con dolore, ma soprattutto di farsi tritacarne dei suoi demoni interiori; una miccia, un film-psicosi, un oggetto anomalo, spiazzante e non identificato né identificabile davvero per quanto accessibile nella sua significanza.

 Al di là della favola (d’orrore) con morale, dell’apologo ecologico, ma anche dell’ammonimento deromanticizzante – l’uomo/vampiro & dio/immortale di Bardem che succhia l’anima e della donna/musa/ancella che lo ama senza riserve: praticamente un manifesto del narcisismo patologico specificatamente maschile -, madre! con la sua blasfemia rende sensato tornare a parlare della bellezza del gesto di caraxiana memoria: del gesto filmico, che trasforma tutto questo in una partitura schizoide, in un martellamento di straziato allarmismo, un maremoto di pulsazioni audiovisive schizofreniche (ad alta tensione e burn after watching, di immediata autocombustione ma di lentissima consumazione).

 

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Un esempio di cinema libero, contorsionista, e scardinato, evaso da qualunque tipo di normativa, un cinema che si è sciolto il cappio al collo dell’irregimentazione di una narrazione standard dall’efficienza appiattente, ma non per questo priva di una coerenza interna, sempre interlacciata a quell’esplosione visuale sbalorditiva anche e soprattutto nel proprio evolvere grezzo, nella sua grottesca ridondanza, nel suo allegorico furoreggiare. Che non alza, ma fa saltare del tutto la famigerata asticella della messa in scena, che disintegra qualunque impronta possibile di un politicamente corretto filmico, che corteggia l’osceno con maestria, lì nelle feritoie di un’anima inconsapevolmente masochista.

 Aronofsky in madre! abita le forme dell’horror, dell’home invasion, del thriller psicologico, e del mélo nel senso dell’amour fou (unilaterale) con irrequietezza e bisogno insopprimibile di trasgressione nel senso più semplice del termine, genio e sregolatezza nel senso meno puro del termine, come avesse necessità di strapparsi di dosso le maglie del genere e quelle di un modus filmandi autoriale diventato di frequente rigido scudo manierato, incerto tra la “scanzonatura” e il “rigore”, senza che la forbice sia in grado di assottigliarsi, e restando facilmente una mummia salmodiante ignara del proprio incancrenimento.

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madre! è una dichiarazione di guerra, e un atto d’indipendenza. Guerra all’impero dittatoriale dell’autoironico (Aronofsky si prende maledettamente, lancinantemente sul serio), indipendenza dal regime cinematografico ordinato & ordinario, privo d’aporie. E quindi si sviluppa sul tracciato di un dramma tensivo apparentemente polanskiano (e di un discorso prettamente aronofskyano sul tendere illimitato, sfinente e sfinente all’assoluto artistico e al doloroso sublime), per poi avvilupparsi in un micro-macrocosmo con un panorama prelevato dal survival, dal war (!) e perfino dal captive movie, con la Final Girl disperatamente determinata a rimanere nella propria amata prigione, col proprio amato aguzzino.

 

Il disturbante, la pancia, lo stomaco, lo sporco sopraesottocutaneo – un jeu de massacre con la macchina da presa che coincide con un farci l’amore – è con la precisione di direzione e messa in quadro scompostamente coordinato – pare un ossimoro, ma anche di ossimori aguzzi e penetranti è fatto madre!, sino alla sua circolare, ossessiva conclusione.

Per questo, che vi piaccia o no, volente o nolente il pubblico, madre! , così nudo, così polisemico, così senza remore, è, oggi, tutto ciò di cui il cinema ha bisogno per respirare aria nuova e pulita.

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