MPD PSYCHO VOL.1
REGIA: Miike Takashi
CAST: Naoki Osaka, Tomolo Nakajima, Rieko Miura
SCENEGGIATURA: EiJi Otsuka
ANNO: 2000


A cura di Luca Lombardini

INTRODUZIONE: LO STACANOVISTA DELL’ESTREMO

Poliedrico, pericoloso, macabro, sovversivo, offensivo, degenerato, genio, sottovalutato, sopravvalutato, fenomeno di culto, intenso, malato, prolifico: questi sono solo alcuni degli aggettivi che da anni vengono affibbiati a questo cineasta unico nel suo genere, sia per il suo modo di lavorare, sia per la sua visione del mondo. Miike Takashi è, prima di ogni altra cosa, il regista che ci ha riconciliato con la serialità cinematografica, “partorendo” dal 1991 al 2005 circa 61 film, riuscendo in un solo anno a raggiungere picchi, per noi comuni mortali, inimmaginabili, che ci hanno riportato alla mente i registi “da drive-in” di matrice cormaniana, in grado di girare su un solo set, le scene chiave di quattro film diversi. Il regalo più grande che Miike ci ha fatto, non sta tanto nella qualità estetica dei suoi lavori (alcuni bruttini, altri pessimi, spesso a causa di un budget che più “low” non si può), Miike va ringraziato perché dal 91’ ad oggi, ha costruito una strada alternativa alla televisione, dimostrandoci che si può fare del buon cinema anche cinque volte l’anno, e che i tanto decantati film per la tv (belli o brutti che siano), possono essere tranquillamente soppiantati da un cinema vero, vivo e pulsante, che non ha paura di mettersi in gioco, riproducendosi e diffondendosi in ogni lettore dvd del pianeta, con tutto il suo carico di pregi e di inevitabili difetti. Ecco perché in queste poche righe non leggerete di inutili classifiche del tipo: è meglio il primo o il secondo “Dead or Alive” ?,“Ichi the killer” è un capolavoro o un marchetta splatter?, ma uno che ha girato “Audition” come può fare un film commerciale come “The Call”? Perché certe masturbazioni mentali, a chi scrive, interessano meno delle previsioni del tempo. Miike, durante tutta la sua carriera, ha fatto la cosa più semplice e allo stesso tempo più importante del mondo: ci ha donato il suo lavoro, e lo ha fatto nella maniera più furiosa e compulsiva possibile. Ecco perché, con tutta sincerità, lascio podi, medaglie, coppe e coppette,a chi si trova a suo agio nel classificare l’universo cinematografico di questo straordinario personaggio.
Miike si può odiare o amare, ma un suo film non lascerà mai indifferente lo spettatore. In ogni suo singolo lavoro c’è sempre un guizzo, uno sberleffo, un momento indimenticabile che, una volta terminati i titoli di coda, ti costringe a rivedere quella scena che ha folgorato la mente e aperto il cuore; solo allora ci si accorgerà che si, era tutto vero, non era affatto un sogno (o un incubo).
In fin dei conti quello che chiediamo al cinema è proprio questo: che ci emozioni, o ci disgusti, anche per un solo minuto.

“Vuoi diventare un fiore?”- MPD Psycho, dal fumetto alla tv

Finalmente, anche nella nostra soleggiata penisola, inizia a cadere qualche foglia. Dopo il passaggio in sala dell’horror “The Call”, e la programmazione sui canali satellitari di “Audition”, la Dolmen pubblica due dei sei episodi di questa serie televisiva tratta dall’omonimo manga di Tajima Sho-u. Girato con un budget ai limiti del sussidio di disoccupazione, e con l’inevitabile obbligo delle scappatoia digitale, l’estroso Miike si getta, senza se e senza ma, in questa squattrinata avventura,
firmando un lavoro sicuramente non memorabile, ma dotato comunque di un innegabile fascino. Ciò che fin dal primo episodio intriga e incuriosisce, è la “transcodificazione” dei segni e dei simboli dei due differenti generi.
Cinema e fumetto si fondono in un dissacrante citazionismo, con il manga inquadrato più volte nelle mani dell’incompetente Sasayama, intento, da buon poliziotto, “a studiare le tendenze delle sottoculture giovanili” del Giappone contemporaneo. Grazie a questa trovata, Miike riesce a far digerire allo spettatore anche i frammenti visivi più arrabattati, dove la pochezza della computer grafica viene superata con “la regia” e con degli espedienti tipici della penna a china. Non ci si stupisce più di tanto quindi, quando la neve (?) verde, o la pioggia battente, pur riempiendo lo schermo, lasciano asciutti i corpi dei protagonisti, riproponendo lo stesso effetto straniante delle immagini dei manga orientali. Girando un prodotto destinato al mercato televisivo, il regista si prende gioco dei mezzucci tipici delle immagini per la tv, riprendendo i cadaveri orrendamente mutilati (fiori innestati nei cervelli, feti estratti dal ventre materno) e censurandoli con la “pigmentazione” del frammento visivo.
Quello che sembra stare più a cuore a Miike però, è la sferzante critica sociale sulle abitudini del Giappone nel nuovo millennio, e, come nella stragrande maggioranza delle sue pellicole, il regista non risparmia nessuna classe generazionale: dalle forze dell’ordine (rappresentate nella figura dell’inoperoso Sasayama), che per arginare l’improvvisa ondata di omicidi seriali sono costretti ad ingaggiare un ex poliziotto affetto da sdoppiamento della personalità, passando per le giovanissime scolarette che, abituate alla violenza documentaristica dei telegiornali, corrono sul luogo del delitto per farsi inquadrare dalle telecamere (“davvero sembro più grassa ?”), e vengono sorprese a partorire nei bagni pubblici; fino ai giovani architetti rampanti che, dietro il precoce talento, nascondono la reverenza verso le ossessioni del rocker-terrorista Lucy Monostone.
Ambientato in una città fittizia (New Town), MPD è prima di tutto il racconto di una società massificata, dove i prescelti sono segnati da un codice a barre nell’occhio sinistro, e il morbo omicida di Nishizono si riproduce attraverso le autostrade della rete telefonica.
Il continuo rimbalzare dalla personalità di Amamiya a quella di Kobayashi ci catapulta in un’atmosfera da fine del mondo, dove il bene e il male sono facce opposte della stessa medaglia che si manifestano con puntuale alternanza. La trama, complicata fino all’inverosimile, aumenta il senso di smarrimento, figlio di una società privata di qualsiasi punto di riferimento, dove i bambini, uniche presenze non ancora corrotte, vengono visti come il futuro: il primo mattone di un mondo nuovo.
Pur non essendo perfetto in molti dei suoi momenti, MPD rapisce lo spettatore grazie al suo groviglio di spunti e di storie, e conferma, qualora ce ne fosse bisogno, l’abilità del regista nel riproporre sullo schermo (piccolo o grande che sia) storie e personaggi appartenenti alle galassie dei manga.
Come dire: non sarà Twin Peaks, ma ad avercene…

(30/10/05)

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