MUSHISHI

REGIA: Katsuhiro Otomo
CAST: Joe Odagiri, Makiko Esumi, Nao Omori
SCENEGGIATURA: NON DISPONIBILE
ANNO: 2006


A cura di Pierre Hombrebueno

VENEZIA 06’: APPUNTI MENTALI SU MUSHISHI DI KATSUHIRO OTOMO

Qualcosa di risucchiante e vorticoso apre il nuovo film di Katsuhiro Otomo, Mushishi, tratto dal manga omonimo di Yuki Urusibara: sono quei primissimi frame avvolti dalla nebbia, tra le montagne senza foschia e le province sperdute e nascoste del Giappone (o semplicemente qualsiasi angolazione mistica della galassia), circondato dalla vegetazione carica di misteri forse magici. L’impatto estetico ci rimanda direttamente a Kurosawa, ma con quell’aura da Nagisa Oshima, da metabolismo spirituale, intrigante, suggestivamente meta-fisica. C’è qualcosa nell’aria, ed è percepibilissima. Cinema di atmosfere, di sensi, appunto fantasmagorico. Poi la presentazione del protagonista, inizialmente dal viso celato dall’ombra e dal cappello come gl’eroi wuxia per nasconderlo momentaneamente dai riflettori e accenderne l’iconograficità, ricalcata poi perfettamente come nel manga. E le prime apparizioni dei nemici/insetti/spiritidelmale, enfatiche e senza abusi di computer-grafica, mentre la fotografia ci ipnotizza in questa notturna incessantemente avvolgente, come se fuori-quadro ci siano sempre presenze che non vediamo ma percepiamo, spiritelli, movimenti lievitati, ectoplasmici. 15 minuti di pura folgorazione, quasi quanto la stessa che abbiamo provato in opere quali Akira o Steamboy, di un regista che ha ben chiara l’idea di Cinema che vuole mostrare (o trasmettere anche in modo extra-visivo). Ma qualcosa s’ingrana subito dopo, un climax inverso che uccide pian piano l’ipnotismo di cui si serve l’opera, che da lì a poco risulterà totalmente sopprimibile. Parlando d’ingranaggio, stiamo dunque attraversando il campo della gestione temporale, della più o meno fluidità, dei più o meni scansioni di montaggio, di ellissi, di parallelismi, condensazioni e dilatazioni. Otomo rimane nella tradizione autoriale del Cinema asiatico, presentandoci un’enunciazione lentissima nel suo tentativo di lasciar metabolizzare le immagini e le emozioni, un Cinema di silenzi, di liturgia e di poetica immaginifica, alla (certi)Kitano e alla Zhang Yimou, o tanto per rimanere in ambito Mostra del Cinema di Venezia, come Weerasethakul. Il difetto non sta nella scelta stessa della fattura ritmica (anche se già per questa opzione i fans più vicini rischierebbero di venire delusi, in quanto mai ci si potrebbe aspettare da un regista così veloce e adrenalinico come Otomo un film dai tempi così opposti), bensì, ovviamente, nel suo tratteggiamento. Ovvero nelle immagini che sceglie di mostrarci, nel loro involversi, ruotarsi attorno.
In primis, al contrario dei già citati Kitano o Yimou (e altri), a difettare in Mushishi è la mancanza di un forte impatto di significazione, di livello indagativo in questo mondo che intende farci conoscere; dunque, se l’intenzione è puntare alla propria (ottima) estetica, la narrazione necessiterebbe al contrario di una gestione temporale che ne permetta l’azione più diretta e aggressiva, cosa che ovviamente non accade per le tantissime dilatazioni diegetiche. Davanti a noi scorrono tante immagini belle ma ripetitive nella loro assenza di scavo extra-estetico, come un cerchio che in fondo in fondo non intende arrivare da nessunissima parte (non a caso, è come se il film non avesse né un inizio né una fine, trattandosi di episodi singoli tratti dai manga), un film d’avventura raccontata però nella maniera meno avventurosa possibile, uno sbaglio d’intenti o di decisioni per un’opera totalmente auto-annullante che cade nel didascalico più puro (soprattutto nelle varie scene dove il protagonista cerca di spiegare il mondo degli spiritelli a cui solitamente dà la caccia).
Male, per un regista (una volta) autoriale che ci ha trasportati in altri mondi e altri cinema.

Attendiamo una ripresa dell’anima. O meglio ancora, dell’Anime.

(20/09/06)

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