LE CRONACHE DI NARNIA

REGIA: Andrew Adamson
CAST: Georgie Henley, Tilda Swinton, Skandar Keynes
SCENEGGIATURA: Ann Peacock, Andrew Adamson, Christopher Markus, Stephen McFeely
ANNO: 2005


A cura di Pierre Hombrebueno

IL DILETTANTISMO UCCIDE

In un momento così prosperoso per il genere fantasy, viene spontaneo chiedersi il perché affidare un progetto così fruttuoso come l’opera di Lewis a un quasi-dilettante che corrisponde ad Andrew Adamson, prima curatore d’effetti visivi (Batman Forever), e successivamente co-regista di Shrek.
La scelta che ricade su un (ex?) uomo d’effetti speciali è in effetti, tutt’altro che ambigua, in quanto ricalca immediatamente l’intenzione ideologica della produzione: puntare sull’impatto digital-visivo plastificante, trasporre il libro di Lewis non in un film, ma in effetti speciali. In fondo, quale altra finalità esistente in questo pianeta potrebbe nascondersi dietro questa scelta? Il fatto che a capo della direzione ci sia un tecnico computerizzante è il primo passo verso il declino di quest’opera tanto attesa(?) quanto voluta.

C’è del buono che si racchiude nell’occhio di Lucy/Georgie Henley, la bambina piccina del quartetto, perché è l’unica che assimila veramente la fantasia emotiva del film, in quanto (veramente) innocente, pura e fanciullesca.
La sua prima entrata nel mondo di Narnia è bellissima, perché è la soggettiva indiretta del bambino che c’è in tutti noi. Un po’ come l’Harry Potter con Hogwarts, o il Frodo Baggins nei regni di ISDA, la prima visione di Narnia filtrata sotto l’occhio del sognatore innocente diventa magica, proprio perché lo spettatore diventa irrimediabilmente lo specchio, l’occhio visivo della protagonista, come uno sguardo all’indietro nel proprio intimo adolescenziale alla ricerca di quei mondi magici che tutti ci siamo inventati o che inventiamo. La prima micro-visione Narniana è oro, retrò come l’immaginifico (wizardof)oz (alice nel) paese delle meraviglie.
Gl’altri del quartetto sono invece dei maledetti babbani, (non)personaggi senza interiorità che il regista(?) ci propina come esseri schele-fantasmagorici finti come giocattoli in quanto senza scavo psico-iconografico, senza una guida direttiva e senza intuizione impulsiva. Adamson non sa nemmeno che cosa sia la direzione d’attori, non personalizza/personifica Edmund, Peter e Susan, e di conseguenza non dà più una strada al filtro narrativo, che teneva la potenzialità filmica proprio negl’occhi dei ragazzi protagonisti.
Si spegne la magia apertaci dalla piccola Lucy, l’innocenza nel captare nelle immagini quella sorta di primitiva fantasia, e si entra nella routine meccanica-meccanicizzante che le cronache ci sottopongono nella povertà dell’immaginario Adamsoniano.
Preferiamo 300 volte quella storia infinita di Petersen piuttosto che questi castori o leoni parlanti, bellissime regine bianche che si inginocchierebbero all’altra regina bianca di Jackson col volto di Cate Blanchett. Preferiamo addirittura quella grande serie televisiva Hercules/Xena a questi minotauri centauri et battilapesca.
Ciò che ci presenta Adamson è un mondo povero di inventiva e di visioni(eccentriche), dei personaggi senza personalità (e perciò, nonpersonaggi ma giocattoli di plastica), che non campano mai in quanto privi di pathos e di enfasi in qualsiasi momento (non) emotivo. La stessa macchina da presa è senza controllo, infilata a caso come se il regista fosse morto sepolto sotto la finta neve del set (magari!).
O forse, berchetianamente parlando, siamo semplicemente dei parigini troppo ricchi di immagini visive assimilate in passato che non sappiamo più cosa farcene di questi cartocci venuti dal nulla. Dopo il Potter e l’Isda, il fantasy post-moderno è cambiato. E ai prodotti di dilettanti ci sputiamo sopra, dall’alto della nostra fantasia.
Questo lato romantico implica però un altro possibile fattore: siamo noi i babbani. E sono sicuro che l’innocenza del nostro nipotino di 8 anni (meta-Lucy?) sarà ancora capace di amare questo prodotto disneyano.
Subentra dunque un discorso di poetica (inesistente), ma per questo, ci sono forse gli psicanalizzatori strizzacervelli. Noi conosciamo solo ciò che abbiamo visto: il fallimento di un non regista che tende a fare il sognatore quando è solo un lurido tecnico. Non possiamo essere tutti degli Spielberg, in fondo. E citando proprio un film di quest’ultimo, Adamson vorrebbe volare verso l’isola che non c’è, ma purtroppo non ha la polvere di fata.

(29/12/05)

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