IL
NASCONDIGLIO
REGIA: Pupi Avati
SCENEGGIATURA: Pupi Avati
CAST: Laura morante, Burt Young,
Yvonne Brulatour Sciò
ANNO: 2007
A cura di Alessandro Tavola
DIS(SOLUZIONI)
Pupi Avati è il
disagio, l’aria dei suoi film è quella di un arrivo a danno già avvenuto,
che in maniera un po’ imbarazzata, fronteggiando volti, sguardi, persone
le cui storie ci interessano ha la timidezza che
impedisce di chiedere e verso cui l’imbarazzo ci fa stare lì, in silenzio
ad ascoltare, solo ascoltare quella disfatta passata e, in puro negativismo, futura che ci viene data.
È questo il Cinema di Pupi Avati:
cronache di irreparabilità, osservata e narrata, di speranze
non vane ma impossibili di protagonisti d’una prima scena, un primo
piano, una prima frase (e una prima nota) di passati pesanti, irreparabili, di
oblii predestinati che a un risarcimento che mitighi aspirano, anzi respirano,
ma, nella catastrofe, impossibile se non amaro; rivincite inattuabili, se non
nel grande imbroglio, perché non naturali nell’imbrigliamento umano,
affranto, tumefatto, invecchiato. I suoi personaggi fulminano la scena perché
appaiono in tutta la loro normalità, che di abbigliamenti
ed eclettismi se ne frega quanto dei virtuosismi che oltre l’intimismo di
ravvicinati e accoglienze carrell(er)otiche non vuole andare. Non falliti, ma ciò che v’è
dopo il fallimento: gli impacciati tentativi di rialzarsi, non riusciti se non
fermi nella teoria, musica incombente ma impietosa di Riz
Ortolani che rende il tutto ancor più una novella negativa.
Perché quasi tutti i suoi Film, drammatici,
autobiografici, thriller hanno un occhio del ciclone che risiede nel Male non
focalizzato, nebulizzato nel mostrare le cose nel ciò che sono: i luoghi, le
parole primarie e quelle secondarie, i tempi, le scelte, i cardini che spesso vengono solo ricordati ma non mostrati e disciolti nelle
didascalie (visive e verbali) non dicono mai, ma suggeriscono riguardo vite
distrutte, delitti gravissimi e apocalissi personali che cercano nuovi paradisi
in ambienti cinematografici (attori, scenografie, stacchi) mai falsati,
nell’estremo naturalistico (anche quando la plastica e il cemento ne
hanno) che il recondito accumulato hanno nella propria quieta mutezza.
I suoi protagonisti sono già stati uccisi una volta,
omicidio con cui non vogliono avere più a che fare.
Sua forza che nell’umano rancore trova la pulsione adatta
all’orchestrazione della ricerca, dell’orbitare intorno al fiele.
Il thrilling ha sempre dipanato tutto questo, i
gialli-contrari sentimental-diretti di Pupi Avati, nella ludicità del(i)
mistero(i) nascosto(i) e della sua(loro) chiave risolutiva, dissolvendo, per
implicato contrasto, il resto: il malessere fisico e manifesto diventa sociale e nascosto; la sua terapia,
dall’auto-riscriversi al ri-descrivere
avvenimenti. Il morale con il palpabile, il mentale con l’architettonico.
La casa dalle finestre che ridono, Zeder,
L’arcano incantatore, adesso Il nascondiglio ancor più
palesemente: il colpevole è lì, mai se n’è andato, tanto da diventare il
luogo stesso, l’entità più invisibile ma preminentemente densa. L’indagarci è da manuale,
baciando l’usuale sovraccaricarsi di avvenimenti
di Avati senza che vengano scombinati, senza
che cozzino uno sull’altro, senza che si annientino tra di loro: mappatura che era dell’animo ora lo è ancora ma temporalmente e spazialmente,
scorrevolmente incamminarsi lungo una spirale verso il suo centro, aspettando, ininteragenti, il risolversi, che completo non è mai.
La forza è in quanto suddetto, di
una forza che del vitale si reincarna nel funzionale che non può non essere
piacere, dove le pretese stanno nella semplicità e nella sottigliezza, come
sempre non inquinata da qualsiasi altro cinema, Avati
in limpidezza col suo nuovo gioco gotico, che con tutti gli altri giochi del
genere ha proprio un cazzo a cui spartire.
Proiezioni mentali di una protagonista malata o
coincidenze che approfittano di scomparse, tutto è soave come una corda che col
suo tempo finisce di vibrare, calamitando a se tutto il male che
(g)a(l)aleggiava mimetizzato prima, quando giunge una soluzione che è generale,
non (buona) per tutti, non per Laura Morante, agente esterno e insieme
luogo di svolgimento, che del suo indagare e dei tunnel della Snakeshall la (sof)fittezza è una
sola, ha il volto di Gollum e il climax di una
paura-farfalla dopo minuti di ne(r)voso
piacere-bozzolo.
Del cupo e dell’innamoramento, è questo
l’occhio che riesce a trascendere il biasimo, assieme a tutti i clichè di oggi, che non compaiono.
Il nascondiglio è nuova vertenza dopo L’arcano incantatore, in prima
di Zeder, di quanto Avati
dell’orrore senza (o con poco) sangue lo abbia sempre
fatto, che si tratti di tempi passati o del giorno d’oggi, di
procuratori calcistici, musicisti, impiegati, menomati oppure assassini
travestiti da suore, biechi uomini di chiesa o ragazze sotto shock; di quella malinconoia solstiziesca e delle
sue forme che, riuscite o po’ vaghe, investigative o da salotto,
strabilianti o convenzionali, esoteriche o al tavolo da poker, sono sempre di
Noi, al contempo ragazze nel nascondiglio, matta(?) Laura Morante,
assassini o gnorri, palazzo dai cunicoli segreti o chiavistelli, Noi.
(18/11/07)