NATIVITY
REGIA: Catherine Hardwicke
CAST: Keisha Castle Hughes, Shoreh Aghdashloo, Oscar Isaac
SCENEGGIATURA: Mike Rich
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
ANTI-CINEMA, ANTI-PATHOS,
ANTI-CRISTO!
Lo so che in precedenza abbiamo annunciato che nemmeno avremo sprecata una
parola per questa spazzatura anti-filmica, ma a furia di bastonate in
retro-scena (“perdio Pierre, e
scrivi qualche porco-cazzo di parola su Nativity
dai!”), eccomi qui a buttare in mezzo pensieri e alcune considerazioni
più o meno vaghe (e dirette) sull’opera in questione. Considerazioni così
elementari, che in alcuni paesi dalla cultura cinefila decente (non di certo
l’Italia, quindi), probabilmente si studiano persino all’asilo; o
magari semplici ritratti logistici, palesemente palesi di buon pensiero e buone
riflessioni innocenti.
Ancora una volta, la Storia del Cinema insegna: per trarre qualcosa di buono
(se non magnifico) da un adattamento biblico/vangelico, bisogna necessariamente
stravolgerne la morale con una nuova rilettura stilistica a finalità (non solo)
autoriale. Rimando subito in mente i primi titoli che mi vengono in mente: Jesus Christ Superstar di Jewison, L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese, La Passione di
Cristo di Gibson. Tre opere che,
seppur diverse tra loro, sono accomunate non solo perché probabilmente i 3 film
più celebri sull’argomento, ma anche e soprattutto per la loro qualità,
provocazione scandalistica, ri-avvolgimento tematico totalmente cinematografico
(addirittura Musicale, per Jewison),
e per questo, perfettamente riuscita nell’operazione predisposta.
Se dobbiamo dunque impartire una regola chiave per un approciarsi a queste
strade sacre, sarebbe senz’altro: “Personalizzate il modus
narrativo”. Stravolgete la Bibbia, se potete. Interpretatela, dandone una
nuova luce, un nuovo punto di vista, un nuovo occhio (non solo) meccanico.
Una prima regola, questa, che Hardwicke
infrange volentierosa, e fin qui va bene, in fondo si sa che le regole sono
fatte apposta (anch’esse) per essere rimodellate e riconfuse nella
mischia anarchica dell’intellettualismo. A questo punto però, e scusate
se oggi siamo cazzutamente bacchettoni, sovviene una seconda regola, quella
infrangibile: “Se volete rompere la Prima Regola, dovete averne
assolutamente una sostitutiva migliore”.
Il punto focale, dunque, è scoprire qual è questo approccio sostitutivo che Hardwicke applica alla sua opera(zione),
e quanto effettivamente ne possiamo beneficiare cinematograficamente, o per
pretendere di meno, anche e solo nel sentire emotivamente.
La regista di Thirteen opta, a quanto
pare, ad una visione favolistica (per non usare la parola
“moralistica”, che odiamo assai) del racconto, quasi un procedere
classico che si avvicina, a primo occhio, molto più ai vecchi Cecil B. DeMille (che diciamocelo: ci fa
tremendamente cagare) che ai recenti e già citati Jewison o Scorsese. Hardwicke si para (e si cela)
immediatamente con una vetrata, dicendoci chiaro e tondo che non intende
assolutamente dare una rilettura (critica o qualsivoglia) alla storia che mette
in scena (storia interessante, a dire il vero, se dato in mano a qualcuno che
la sa deframmentare), ma solamente, appunto, narrarla, come una vecchia
story-teller con le sue nipotine sulle ginocchia. In fondo, non è totalmente un
caso se più volte, assistiamo, all’interno del film, proprio a personaggi
che raccontano favole ai bambini, pazientosi ed esaltati dalle vicende
d’altri tempi. La regista vuole che noi spettatori, proprio come quei
bambini, ce ne stiamo seduti e buoni, affascinati dai racconti che lei ci vuole
mostrare (ancora una volta, sigh), dimenticandosi però di tenere in conto
diverse pecche in questa scelta:
1) Noi non siamo quei bambini. Anzi, perdio, pensa, siamo pure adulti.
2) La Storia di Gesù bambino ce lo raccontano da quando abbiamo 4 anni. E tutte
le Domeniche quando andiamo a messa. Ne abbiamo i coglioni pieni.
3) Collegandoci al punto 2, anche il nostro repertorio culturale è pieno
immagazzinato di film su Gesù Bambino. Dai già citati De Mille, passando per b-movies, c-movies, z-movies e
quant’altro. Persino cartoni animati. Non solo sappiamo la Storia di Gesù
Bambino, grazie, ma addirittura l’abbiamo visto mille volte sugli schermi,
piccoli o grandi che siano.
Tre punti semplici che eppure ci spiegano in pieno l’osso scheletrico,
morale, etico, di Nativity: - Ci
troviamo di fronte ad un film che pretende un pubblico infantile (non nel senso
Spielberghiano di “infantili sognatori ed immaturi”, ma
“infantile aka bambino che non fa domande e non pensa”). – Un
film che scarta l’elemento d’interessamento, in quanto mostra
nascondendosi pretendendo di raccontare con estrema semplicità la storia più
raccontata e semplice del mondo: cazzo!. – In quanto senza pretese
critiche/riletture, il film entra di diritto a quella lunga ed infinita
cozzaglia di operette sull’argomento – aka, ci troviamo davanti ad
un film inutile. Inutile perché non aggiunge (e non ripropone nemmeno) una
strada autoriale o filmografica che sia. Inutile perché priva di qualsiasi
rappresentazione tecnica/cinematografica che non sia già presente (e
diciamocelo: sputata) nel manuale istituzionale. Inutile perché la Hardwicke non riesce nemmeno a sfruttare
questi stessi cliché e maniere istituzionali per provocare perlomeno
un’esperienza emotiva tramite l’uso dell’enfasi o della
finzione scenica. Come a dire che già la Hardwicke
non sa “inventare”, ma peggio, non sa nemmeno
“raccontare”. Quel raccontare in senso (Ron)Howardiano del termine,
s’intende. Non pretendevamo un miracolo divino, ma anche e solamente quel
solleticare sentimentalmente, utilizzare strumenti e topos narrativi già usati
e pre-usati ma comunque funzionali. Questo è brutto e inutile Cinema mono-espressivo
e anti-dialettico, piattezza all’inverosimile con un cast gestito come un
gruppo di manichini senza volto e senza grazia. Cinema anestetizzato e per
questo didascalico, tentativo di estrema favolizzazione. Con la differenza che
le favole erano cazzutamente attraenti perché possedevano magia. La stessa
magia che in Nativity manca, perché
pellicola di carta e plastica. E noi di una buona fotografia e scenografia
senza una degna narratrice non sappiamo proprio che cazzo farcene.
(11/12/06)