NELLA VALLE DI ELAH

REGIA: Paul Haggis
SCENEGGIATURA: Paul Haggis
CAST: Tommy Lee Jones, Charlize Theron, Susan Sarandon
ANNO: 2007


A cura di Pierre Hombrebueno

DI SILENZI LITURGICI E SGUARDI INVERSI

Specchi rovesciati. O forse addirittura rotti. Con uno sguardo che cambia direzione, e stavolta sprofonda negl’abissi delle ombre celate e tanto temute.
Così come in Crash nessuno è quello che sembrava essere, anche Nella valle di Elah porta avanti un soverchiamente dell’apparenza, stavolta però arrivando al lato più oscuro e negativo delle anime: laddove la precedente opera del regista ritrovava una fiducia nell’umanità e nella solidarietà, in Elah ogni ideale a stelle e strisce sembra frantumarsi dolorosamente ad ogni avanzare della narrazione, ad ogni passo di scoperta e penetrazione attraverso gli occhi di Tommy Lee Jones, il patriota ex sergente in cerca del figlio militare.
Ed effettivamente, l’opera di Haggis parte proprio come un film investigativo, con questo cowboy retrò Eastwoodiano in cerca di verità, pagandone però il prezzo con un giro senza ritorno in una spirale infernale di decadenza e dramma, una discesa verso gli abissi della coscienza e della distruzione mentale che riduce l’essere umano allo stato anestetizzato-animale. Probabilmente niente di nuovo sotto il vento, e i migliori film bellici della Storia del Cinema, da Il Cacciatore a Full metal jacket, ci esplicarono già questo lato inchiostro superlativamente. Eppure ciò che rende diverso e necessario lo sguardo di Haggis non è solamente la contestualizzazione al presente del soggetto, bensì la sua scelta di angolazione penetrativa: Nella valle di Elah né si svolge in Iraq, né in esso abbiamo scene di sparatorie impazzite o estremizzazioni visive. Haggis parte da casa nostra, dalle strade americane, dal mondo “civilizzato”; quel (poco) che vediamo della guerra sono nient’altro che filmati spixelizzati di un cellulare, che eppure diventano esattamente lo sguardo della società odierna che il regista ci esprime: il mondo di oggi è la stessa di quel cellulare recuperato, una realtà distorta e frammentata, confusa, dove ogni sicurezza è ormai bandita, e il cui significato finale, nella ricostruzione del puzzle, è proprio il decesso del sogno e degl’ideali.

Hank, il protagonista incarnato da Tommy Lee Jones, è in verità lo stesso Paul Haggis, un uomo che di fronte alla verità, assume la propria consapevolezza di un marcio latente che scorre fra l’apparente quiete e fraternità. Haggis è proprio il patriota incredulo la cui innocenza e speranze verranno messe in ginocchio; ciò fa de Nella valle di Elah una contro-risposta a Crash: se prima l’autore si è precedentemente ostinato a riscattare l’american dream scavandoci (con tanto fastidio in chi del film ha colto solo il lato ideologico) la fiducia negli U.S.A e nella sua coscienza, stavolta la sua visione si ri-elabora trasformandosi in una richiesta d’aiuto e di compassione per una nazione che non riesce più a brillare delle sue stelle.
Quello di Haggis è una presa di posizione, finalmente consapevole, disilluso, ma con un cuore pieno di emotività e trasparenza proprio come quella di Hank.
Nella valle di Elah non è affatto un film anti-americano, come molti potrebbero credere a prima visione. E’ invece l’atto d’amore più sincero verso la propria patria: così come l’atto di Frank verso Maggie in Million dollar baby, Haggis mette ombra sul sogno americano per puro Amore.
Hank, allora, incornicia la foto di suo figlio con i suoi compagni sorridenti e ancora inconsapevoli di ciò che li attende. Essi sono nient’altro che dei piccoli Davide ritrovatosi nella valle di Elah a combattere un Goliah tanto più grande di loro, con una battaglia che però ha perso quell’aura di miticità biblica per far spazio alla realtà: Davide è stato soverchiato e ha perso, perché era solo un povero ragazzino sacrificato da una bandiera ormai rotta e macchiata di sangue.

Per questo Nella valle di Elah trasuda umanità in ogni singola scena, e Haggis sceglie giustamente, anche grazie agli insegnamenti di Clint Eastwood, una messa in scena classicissima, in quanto metodo più idoneo per rendere più chiaro e cristallino il proprio livello di significazione. Ogni campo del film ha sempre il suo contro-campo simmetrico, sia negli sguardi che nei sottotesti, e al contrario di Redacted, il film anti-bellico di De Palma anch’esso in quel di Venezia, Elah non richiede nessun grado concettuale nella forma. Il Cinema di Haggis è totalmente narrativo, ed è una narrazione che seguiamo con la massima della fluidità, asciuttissima e senza pippe tecniche di nessun genere, lasciando spazio evocativo unicamente quando la macchina da presa si concede di fermarsi sui primi piani di Tommy Lee Jones, il volto scalfito di rughe vecchie quanto la Storia, e con quegl’occhi di trattenuto dolore che enfatizzano automaticamente i momenti di silenzio, non del nulla per il nulla, ma di silenzi liturgici carichi di pathos nonché di pietas, sobri ma impliciti urlare dal profondo dell’inconscio: non sgorgono lacrime, e se lo fanno l’ombra è subito lì pronta ad invadere il campo, mentre la macchina da presa pare allontanarsi per lasciare i corpi nel loro intimo dolore famigliare ma anche universale, che sia nei corridoi di un ospedale, che sulla panchina di un ufficio investigativo.

Ciò fa di Haggis, oltre che un Autore lucido ed emotivo, anche uno dei migliori classicisti di Hollywood dopo Clint Eastwood.

 

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(15/12/07)

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