NEMICO PUBBLICO – PUBLIC ENEMIES di Michael Mann
REGIA: Michael Mann
SCENEGGIATURA: Ronan Bennett, Ann Biderman, Michael Mann
CAST: Johnny Depp, Christian Bale, Marion Cotillard
ANNO: 2009
22 luglio 1934. Chicago. John Dillinger passeggia indisturbato nel quartier generale dell’FBI. La stanza è deserta e, nonostante siano da poco passate le dieci del mattino, dalle finestre filtra la luce del crepuscolo. Lì, nella sede operativa di chi ha dimenticato cosa sia il sonno pur di mettergli le manette ai polsi, nessuno sembra notarlo. Nemmeno quando si informa sul risultato dei Cubs: <<vincono 2-1 al terzo inning». Dillinger passa inosservato perché è già fantasma. La sua avventurosa corsa a perdi fiato tra le banche degli Stati Uniti è giunta al capolinea. Fissate alla bacheca una serie di fotografie: deceduto, deceduto, deceduto. Poi la sua istantanea in bianco e nero. Ancora poche ore e John Dillinger verrà ucciso da un colpo di pistola sul marciapiede antistante il Biograph Theatre.
«MUORI DA EROE O VIVI DA CODARDO». LA IENA DI CHICAGO
Il gioco delle etichette vuole che ad Hollywood siano rimasti in quattro a potersi fregiare del titolo di “dinosauri”: Clint Eastwood, William Friedkin, Walter Hill e, naturalmente, Michael Mann. Praticamente la quinta essenza del cinema vero, quello capace di elevarsi a potenza. Nemico Pubblico rappresenta la conferma di come le classificazioni spesso non mentano e siano garanzia di assoluta qualità e credibilità, figurando con geometrica precisione la quadratura del cerchio raggiunta dal regista di Collateral e Miami Vice all’interno del suo personalissimo percorso d’autore. Public Enemies disegna l’omaggio alla tradizione dei codici di genere gangsteristico e contemporaneamente ne rilegge l’aspetto tecnico attraverso l’utilizzo del digitale riversato in pellicola, imponendosi all’attenzione del grande pubblico grazie al riuscito connubio di ricostruzione storica, originalità della messa in scena e profetica metacinematografia. Nell’aggiungere, dopo Milius e Ferreri, un terzo tassello di celluloide alla leggenda di John Dillinger, Michael Mann non lascia nulla al caso: a partire dall’incipit dove, pochi istanti prima che si sviluppi una delle sequenze di evasione destinate ad entrare nella storia del robber movie, vengono introdotte tramite didascalia le coordinate temporali e sociali della vicenda (sono passati solo quattro anni dalla grande crisi del ’29, il crimine dilaga e con esso le sue celebrità: Alvin Karpis, Pretty Boy Floyd, Baby Face Nelson. Le forze dell’ordine cercano di contrastare l’imponente ondata di cronaca nera contrapponendovi le prime applicazioni scientifico-criminologiche unite a pratiche poliziesche poco ortodosse, finalizzate al risultato “morto o morto”). All’interno di questo scenario il cineasta rintraccia il definitivo punto d’arrivo della sua poetica, facendo convergere nelle dinamiche del duello tra il “ladro” Johnny Depp e la “guardia” Christian Bale la compiuta coesione di segni e simbologie provenienti dai vari Strade Violente (la storia d’amore impossibile con Marion Cotillard), Heat (l’eterna rivalità tra criminale e tutore della legge) e Alì (la parabola fatalista attraverso la quale il protagonista precipita subito dopo aver raggiunto la glorificazione).
John Dillinger e Melvin Purvis, “nemici pubblici” di antistanti fazioni, opposti ideali e contrastanti stili di vita. Il primo viene riconsegnato alle scene con indosso i panni del personaggio popolare, un moderno Robin Hood che rapina banche senza per questo approfittare della gente comune, personalità a metà tra il romantico antieroismo (il cappotto appoggiato sulle infreddolite spalle del biondo ostaggio) e la furia rabbiosa del delinquente (la violenza animalesca che scaturisce spontanea durante le sparatorie). Il secondo irrompe nelle pieghe della vicenda come perfetto contro altare del rivale, “antagonista” che ha fatto suoi i valori cavallereschi dell’uomo tutto d’un pezzo: qualità che gli permettono di alternare nobiltà d’animo verso il gentil sesso (l’intervento che mette fine al brutale interrogatorio di Billie Frenchette) e intransigenza militare nei confronti dei malviventi. John Dillinger e Melvin Purvis si inseguono all’interno di un’opera colossale, sorretta da una sceneggiatura a tenuta stagna e impreziosita da frammenti di dialoghi ispirati alla gloriosa “scuola dei duri” dell’hardboiled («Tu sei uno che parte in quarta» – «Se avessi davanti a te quello che vedo io partiresti in quarta»; «Cosa non ti fa dormire la notte?» – «Il caffè!». Passaggi che fanno tornare alla mente i personaggi creati dalle macchine da scrivere di Raymond Chandler, Dashiell Hammett o Ross McDonald). Uno script talmente efficace da permettere, anche agli interpreti secondari, di ritagliarsi il loro quarto d’ora di fama anche per una sola, indimenticabile posa (il caso di Baby Face Nelson, sanguinario collega di Dillinger e suo partner in un unico, sfortunato colpo. Relegato sullo sfondo commuove, diverte e immalinconisce quando, ubriaco, chiede: «Vuoi che ti imiti James Cagney?». Guarda caso il primo Public Enemy nella storia della settima arte).
Emotivamente diviso in due atti, Nemico Pubblico alterna una prima parte speranzosa, solare e a tratti scanzonata ad una seconda frazione di racconto via via sempre più grigia e disperata: vertigine di morte che si riflette negli atteggiamenti e sulla superficie del corpo di Depp, sorpreso a riposare con le mani giunte in petto e progressivamente sempre più emaciato in viso e dimesso nell’abbigliamento. Su questo sfondo, che per ariosità e respiro iniziale è in grado di riportare alla mente schegge visive appartenenti al Cimino dei tempi d’oro, Mann assesta lo strappo decisivo innervando la narrazione degli eventi con uno stile di regia tanto sporco e grezzo quanto curato nei particolari, utilizzando la ripresa in digitale come elemento rivelatore di veritiero realismo e le inquadrature scalene a mo’ di proemio di quanto balisticamente accadrà durante le sequenze d’azione. I conflitti a fuoco, da sempre peculiare e originale marchio di fabbrica del cineasta, non solo torturano piacevolmente le orecchie dello spettatore con la consueta deflagrazione dei colpi in arrivo, ma per la prima volta nella filmografia manniana vengono immortalati dal punto di vista dell’angolo di copertura di chi arma il cane e preme il grilletto. In modo da conservare il campo lungo per i totali dei luoghi che fanno da set alla coreografica mattanza.
Scrittura, tecnica ma soprattutto innamorata devozione nei confronti della storia del cinema: concentrato di sentimenti che Michael Mann palesa profetizzando il drammatico destino del suo protagonista dal grande schermo di una sala buia. Dillinger/Depp trascorre gli ultimi 93 minuti della sua vita assistendo alla proiezione di Manhattan Melodrama, andando serenamente incontro alla fine dei suoi giorni con lo stesso stato d’animo trasmesso dal Clark Gable diretto da Woodbridge Strong Van Dyke, con tanto di significativa similitudine estetica che avvicina i due attori nell’ostentare un baffetto retrò. Praticamente l’esempio lampante di come il rispetto nei confronti dei classici possa trasformarsi in metafora di maturità: Mann chiosa su un’opera per certi versi definitiva, reinventando i film di una volta e senza per questo omettere di pagare dazio in fase di omaggio e cronologico rispetto degli avvenimenti (il vero Dillinger morì subito dopo aver visto Le due strade), dando così una lezione di stile a chi, ultimamente, ha deciso di sacrificare le pizze altrui sull’altare incendiario delle proprie creazioni. Ogni riferimento all’ultimo, “piromane”, Tarantino è puramente voluto.