NIENTE DA NASCONDERE
REGIA: Michael Haneke
CAST: Daniel Auteuil, Juliette Binoche, Maurice Benichou
SCENEGGIATURA: Michael Haneke
ANNO: 2005
A cura di Davide Ticchi
DALL’UOVO ALLA GALLINA
Per riuscire a comprendere il perché dell’operato psicoanalitico del
regista, autore di un oscuro dramma della psiche come Caché, si rivela
necessario cominciare dal fondo, da ciò che (in)conclude
una storia apparente come quella di Georges ed Anne.
Una sequenza fissa e lunghissima, immortala l’andirivieni presente
all’uscita di una scuola media dove genitori e conoscenti prelevano i
propri pargoli, mentre altri di questi, evidentemente condizionati da
differenti abitudini familiari, restano sulle scale ad esibirsi o si dirigono
passivamente verso casa, uscendo obbligatoriamente dal quadro cinematografico.
Ecco il lavoro di Michael Haneke, che con questo film chiude
un cerchio psicoanalitico proprio, appartenente ad un percorso cinematografico
contraddistinto da una logica semantica imprescindibile, rara a trovarsi in una
qualsiasi filmografia di regista noto. Infatti
nella sequenza appena descritta si possono supporre tanti, forse troppi
significati che corrispondano poi a verità tangibile, ma ognuno di essi frutto
del grande merito di una perseveranza quasi ostinata da parte del regista,
senza lo scrupolo di ripetersi od autocompiacersi, nel proporre al pubblico
frammenti di vite in gioco o forse già giocate a giovanissima età. Nel quadro
finale di Haneke sopravvive solo la nuova generazione sotto l’occhio
imperscrutabile del media, quello formato da
obbiettivo e schermo televisivo, e dove i bambini saranno (o sono già)
macchiati delle stesse colpe, per cui i loro genitori sono impossibilitati a
venirli a prendere davanti a scuola. O meglio, proprio
quando Georges va a prendere a scuola suo figlio Pierrot, questi gli chiede
cosa sia successo, ottenendo come risposta proprio la confessione del male
ricevuto da ignoti attraverso le intimidazioni, banalmente noi stessi. Quindi nelle abitudini borghesi della famiglia di Georges, esistono
solo colpe ricavate dagli stessi ambienti iper stilizzati in cui questa
vivifica, sopravvive e si fa apatica e passiva, per la vita solita e monotona a
cui si genuflette. Anche se qui non è la tanto
declamata monotonia ed insoddisfazione borghese a svettare sul resto, quanto la
restante discreta e improvvisa violenza che queste combinazioni esistenziali
provocano sulle psicologie dei personaggi. Non a caso a distinguere i componenti della famiglia l’uno dall’altro, sono
gli oggetti personali appartenenti ad essi, ossia quella parete vuota e
semibuia della camera da letto dei genitori, e quel collage di poster vivaci e
modaioli nella cameretta del piccolo Pierrot. Quindi
tutto è e appare come dovrebbe essere, anti-genuino, predefinito ed
incontrovertibile, tranne le menti dei protagonisti, piene di mostri scoloriti
e sanguinolenti, vecchi e nuovi, tramandati dagli antenati ed ereditati dai
postumi. E proprio nel bambino riscontriamo quello
stato di passaggio tra l’infanzia ed il modello formativo proposto dai
genitori e dall’ambiente in cui vive.
Penultima lunga sequenza fissa sull’abitazione, proprio il centro degli
scontri psicologici e fisici della famiglia e degli amici, sogni malefici ma
non incubi, cosparsi di sangue e rituali campestri, proprio dentro la bella
casetta incastonata tra due grossi palazzi. Lì, in quel preciso quadro,
scoviamo la conclusiva ed anche prima immagine del film, che si assume
l’incarico di dimostrare ciò che era ed è il soggetto inquadrato, ossia
un’abitazione borghese nella quale la vita procede salubre e felice,
davanti alla maschera, persino stupenda. Ed anche se ciò che accade
all’interno è la dimostrazione per fatti, che la vita di un conduttore
affermato ed una editrice in carriera porta al
benessere, l’espiazione delle proprie colpe passate non può essere
acquistata, ma la pena per questa sarà inferta secondo giudizio divino. Non a
caso non verrà mai svelato il colpevole del castigo
assegnato loro, e nemmeno questi riusciranno a liberarsi dei propri deplorevoli
fantasmi del passato, seguendo una logica dualistica dell’eterno soffrire
e gioire parallelo, nella dolce culla in cui abitano. Le videocassette con la
registrazione delle loro vite affrettate e ripetitive,
e degli stessi movimenti nelle luci dei soliti orari mattutini e notturni,
giungeranno a loro accompagnate da un disegno infantile che minaccia morte in
ogni suo tratto.
Come opposto a Narciso osserviamo l’estensione mortuaria
dell’immagine di una famiglia frammentata psicologicamente, destabilizzata nelle sue “convinzioni” dal
vedersi specchiata in una vita che è visibilmente inumana, che gli occhi e gli
altri sensi non riescono ad accettare come propria. Perciò
non è tanto il giungere assiduo delle intimidazioni mediali a sconvolgere
l’ordine familiare, quanto questo entri in conflitto con la proposizione
di un’alternativa verità di vita, offerta dalla visione di sé in qualcosa
che non si riesce ad accettare, ma che il sociale (lo psicopatico? Dio?)
accetta per noi. Come questo essere distruttore, freddo e dissidente si
avvicini a figura onnipotente come quella di un dio, lo dimostrava già il fatto
che in Funny Games, il messaggio era recapitato a noi attraverso i due angeli
sadici e maledetti da lui inviati, che non rappresentavano altro se non la
purezza d’animo portata all’esasperazione da una punizione
stabilita dal divino. Così come la possibile smaterializzazione di tali figure
dipanate nelle vecchie ferite e negli antichi rimorsi, rappresenta
un’evoluzione concettuale tanto ricercata dal regista
austriaco, e scoperta finalmente in Caché nella sua dimensione più
filosofica e austera.
Imponenti sono anche le interpretazioni di Daniel Auteuil e Juliette Binoche,
oltre che della bravissima Annie Girardot, che qui interpreta il ruolo della
madre ammalata di Georges.
Così il lavoro di Haneke può essere considerato in parte
decodificato, riscritto, anche se resta da capire quanto altro la
comprensione di un film così psicologicamente articolato, impegnativo e
perfetto, lasci al di fuori delle nostre menti, recettori di uno degli autori
più logici e filologici, che il cinema abbia mai lasciato in custodia sopra lo
zerbino di casa nostra…
(16/10/05)