NO di Pablo Larrain
REGIA: Pablo Larrain
SCENEGGIATURA: Pedro Peirano, Antonio Skármeta
CAST: Gael García Bernal, Alfredo Castro, Antonia Zegers, Luis Gnecco, Marcial Tagle, Diego Munoz, Luis Gnecco
NAZIONALITÀ: Cile/Francia/USA
ANNO: 2012
IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA (García Bernal/Saaveda liberano tutti)
I danni psicologici e socioculturali causati dalla quindicennale dittatura di Pinochet erano la materia che pulsava sottopelle alle due opere (respingenti, aspre, brutali) di Pablo Larrain che hanno preceduto No. L’oppressione come una cinghia invisibile stretta al collo, un intimo graduale annichilimento, l’erosione della dignità emotiva: Tony Manero e Post Mortem fendevano la carne costituendosi squassanti armi da taglio, glaciali aggressioni viscerali, e agivano subliminalmente su più livelli: la corrosione interna, l’incapacità di costruirsi un pensiero individuale solido, lo sciabordare del/nel nulla, il vuoto scarnificante, l’implosione mefitica, la coscienza dell’orrore mortifero della realtà che batteva invano contro una porta chiusa (come nel finale di Post mortem), il rigor mortis impiantato nella vita emozionale quotidiana sottoforma di utopie putrescenti, appigli disperati, feticci sfatti, icone da idolatrare e in cui trasfigurare per nascondervi al di sotto i rimasugli di noi stessi (una morbosità patologica che inghiotte il protagonista di Tony Manero).
No è allo stesso tempo il completamento risolutivo, l’anello mancante e l’atto di indipendenza. E si sprigiona – (di)mostrandosi – in una girandola dalle tante facce di un sentire che s’allarga a macchia d’olio lungo tutto il Cile. Un paese che finalmente, slacciato dall’apnea, alza la testa per tornare a respirare, a (ri)elaborare, a costruire, a sognare. Il tutto tramite immagini-spot che fungono da spunto iniziale e poi da traino per la vittoria del referendum dell’88: immagini dalla commercialità esagerata, artefatta, persino posticcia: ma l’immaginario, reso asfittico dal sistema occlusivo, trova attraverso di esse un inedito spazio d’espressione, un nuovo slancio, una distensione resa ipercromatica nell’azione apertamente artificiosa eppur così incoraggiante e positiva (soprattutto, politica) modellata dalla forma pubblicitaria.
Il Futuro viene promosso come prodotto di fiducia, inappuntabilmente sicuro, influenzando e abbacinando: e così, si apre una nuova era anche dal punto di vista della comunicazione, quando i media di mercato si rivelano in grado d’inglobare e favorire anche concetti come libertà e rivoluzione (l’altra faccia della medaglia di un successo).
Irresistibilmente vitale, la cavalcata trionfale dell’opposizione – persa in partenza ma vinta al traguardo –sfila urgente e trascinante sullo schermo, e si libra celebrando la propria libertà sul regime del terrore: il “No” è un’esortazione a squarciagola, un monito vitalistico, un grido di battaglia, una propagazione energ(et)ica, il principio attivo del cambiamento, esasperato, fragoroso e catartico; seppure l’urlo giustamente indignato (si) muti, per sopravvivere, nella risata di uno spot.
E il cinema accompagna il cambiamento, adattandosi camaleonticamente al brusio creativo del momento storico, al mood brulicante di stimoli: guardare No è fare uno zapping in un’ortografia visiva ondivaga, di sgranature rigogliose. Un caleidoscopio formale che mixa materiali di repertorio, pellicola d’archivio e ricostruzione filologica, linee biopic, documentario e fiction, forgiando un puzzle a 4:3 che riflette sull’uso intelligente dei mass media così come sulla sua ambiguità; No solleva il sipario su una nuova epoca gettando un’ombra sugli effetti collaterali di una rivoluzione retta su pilastri consumistici, e al contempo disquisisce sulla propulsione controcorrente dei colpi di scena socio-culturali, sulla logica dello spiazzamento, sui sogni naif e i desideri smodati come armi di liberazione di massa.