NON HO SONNO di Dario Argento
REGIA: Dario Argento
SCENEGGIATURA: Dario Argento, Franco Ferrini, Carlo Lucarelli
CAST: Max Von Sydow, Stefano Dionisi, Chiara Caselli, Gabriele Lavia, Roberto Zibetti
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 2001
USCITA: 19 settembre 2001
«Nella notte fredda e scura, chi ha paura, chi ha paura?
Ha paura l’assassino d’incontrare il suo destino»
Nero, Giancarlo Soldi
Dario Argento è icona fuori dal tempo, in quanto regista ombelicale: dipendente, inscindibile dall’atmosfera storica e artisticamente licenziosa dei primi passi per sopravvivervi indolore, recidendo il cordone vintage, magari aggiornandosi ai tempi che corrono. Non ho sonno prova tutto ciò, ribadendo quanto Argento non possa più essere (completamente) Argento semplicemente perché privato di quella dimensione temporale, fondamentale affinché l’artificio prendesse forma di realizzata (e accettata) celluloide.
Ultima boccata d’ossigeno prima della picchiata verticale (nell’ordine Il Cartaio, La terza madre, Giallo. Senza dimenticare Do you like Hitchcock?, Jenifer e Pelts), Non ho sonno è creatura tanto deforme quanto meritevole (e bisognosa) d’affetto; innesto parzialmente riuscito tra la visionarietà menefreghista dell’Argento zoofilo e le esigenze di linearità d’indagine figlie della comparsata lucarelliana in sede di sceneggiatura. I primi 20 minuti condensano ciò che la pellicola vorrebbe essere: pause zero, trama altrettanto, acceleratore a tavoletta, macchina da presa come ai bei tempi, guanti neri e furia omicida, cieca, brutale. All’ingresso in punta di piedi di Lucarelli (la sequenza del treno chiama, almeno per ambientazione, Donato Bilancia), Argento “resiste” stoicamente, ostentando un piglio che non si ammirava da tempo. Da lì in avanti si sviluppa un altro film, purtroppo girato ad inizi 2000 e non nei primi ’70. E come tale si trascina dietro il fardello di una credibilità narrativa a tutti i costi ferrea, che al guizzo irrazionale concede il minimo salariale. Quando va bene.
Ciò che fino a Profondo Rosso poteva definirsi bizzarria d’autore o creativo assalto alle regole del genere profumato di nonsense, in Non ho sonno viene (troppo spesso) travestito da pongo televisivo: più fiction che sceneggiato. Tre quarti dei volti in scena non colpiscono né convincono, sebbene Argento tenti in ogni modo di disordinare le carte, provando addirittura a ripensare ai satelliti interpretativi di 4 mosche di velluto grigio (dal quale sembrano usciti Beppe il parcheggiatore o Leone il barbone), gli stessi che finiscono per rimanere imbrigliati nelle maglie di un’indagine sì incalzante, ma che visivamente sembra già pronta (o programmata?) per il tubo catodico. Questione prevalentemente di sceneggiatura, che carica in corsa Lucarelli e la sua attitudine da cronaca nera ricostruita, operazione evidenziata e nelle terminologie utilizzate («copycat» o «squadra anti-mostro») e nei riferimenti sotterranei (il già citato “killer dei treni” o le voci sul caso di Suor Rosangela come fonte di presunta ispirazione); Argento sta al gioco, sforzandosi in tutti modi di fare del suo cinema (solo) un meccanismo di classicismo ai più riconoscibile e fin troppo lineare. Quasi tentasse di conformarsi ad un linguaggio a lui sconosciuto. Cause ed effetti si alternano più o meno con ordine a filastrocche, libri gialli e primi amori: sia musicali (i per l’occasione riunti Goblin, comunque troppo rumorosi e presenti, quasi volessero comportarsi come quelle attempate band di nuovo in tour dopo anni di silenzio), che cinefili (la somiglianza con L’uccello dalle piume di cristallo, di cui per snodi narrativi Non ho sonno appare quasi come remake: vedi i rumori della memoria nei pressi dell’omicidio o i parenti del colpevole, che in entrambi i casi tentano di coprire, addossandosele invano, le gesta dell’assassino). Nonostante ciò, buona parte del castello di carte regge.
Insomma, pur con i suoi mille difetti, Non ho sonno funziona, lasciandosi guardare e ammirare malgrado il suo precario equilibrio: vuoi perché Argento torna, con continuità, a muovere la macchina da presa come solo lui sa(peva) fare, vuoi perché le esecuzioni femminili restano, nessuna esclusa, da antologia; lasciando fortunatamente in vita la meravigliosamente inutile Chiara Caselli, bambolina sedata rispetto alla porcellana isterica ammirata in Nero (piccolo, grande e troppo spesso dimenticato capolavoro “sclaviano”, invero non esente da latenti rimandi: qui suggeriti dall’incipit da provincia metropolitana che d’ambientazione apre questo Argento), ciò nonostante male minore di un cast, eccezion fatta per Max Von Sydow, clamorosamente sotto la sufficienza.
Dell’Argento declinante, Non ho sonno è l’opera maggiormente a fuoco e degna del nome che porta. Lo si volesse gonfiare oltremodo, si potrebbe azzardare che sta al cinema dell’italiano come Shutter Island sta a quello di Scorsese.