NON BUSSARE ALLA MIA PORTA
REGIA: Wim Wenders
CAST: Sam Shepard, Jessica Lange, Tom Roth
SCENEGGIATURA: Sam Shepard
ANNO: 2005
BROKEN FLOWERS
REGIA: Jim Jarmusch
CAST: Bill Murray, Julie Delpy, Brea
Frazier
SCENEGGIATURA: Jim Jarmusch
ANNO: 2005
A cura di Andrea
Magagnato
STORIE DI UN UOMO IN VIAGGIO
Un uomo consumato e solo, dopo una vita di abbandono
agli eccessi (donne e/o alcol), entra in una crisi profonda ed intraprende un
viaggio, fisico e mentale, nel proprio passato sulla cornice di
un’America desolata per dare un senso alla propria condizione. Ma l’impresa si rivela più ardua del previsto.
Stessa idea, stesso tracciato e stessa malinconica
conclusione fotografati da due autori diversi, Wenders
e Jarmusch, con due visioni diverse.
Medesimi contenuti (o quasi) veicolati da forme
sensibilmente distanti.
Per Wenders quest’uomo
si chiama Howard Spence
(interpretato dallo Sam Shepard
di Paris,Texas) ed è una stella del
cinema western ormai in declino, una sorta di Clint Eastwood in versione “bad guy”
logorato da un ritmo di vita esagerato; fuori dal set ad attenderlo solo donne,
alcol e gioco d’azzardo, famiglia lontana e affetti inesistenti.
Il film del regista tedesco inizia subito con la fuga da questa spirale
autodistruttiva: un cowboy che, disposto a spogliarsi di tutto per vestire i
panni di un uomo qualunque, cavalca verso l’orizzonte deciso a staccare
la spina e tornare finalmente a casa.
A casa, dalla madre, viene a conoscenza che trent’anni prima ha avuto un figlio. Riparte perciò
alla volta di una cittadina desolata e polverosa della provincia americana nel
disperato tentativo di cucire una famiglia.
Wenders si affida ad una fotografia straordinaria per
sottolineare solitudine e sconforto del protagonista,
nostalgica quando impressiona luoghi legati al suo passato, psichedelica nelle
sequenze al casinò, energica nel tratteggiare i luoghi della perdizione.
Campi lunghi e lunghissimi mettono costantemente in rapporto l’uomo
all’ambiente e, proprio come nei western che l’hanno imprigionato Howard Spence sembra perseguitato
da questa natura possente, e viene isolato, tagliato
fuori.
Nei locali affollati tutti lo riconoscono come star del cinema, fuori rimane invece
un uomo dimenticato, in luoghi profondamente malinconici che lo circondano solo
di sabbia, rocce e strade deserte.
Non bussate alla mia porta si legge tutto nella lunga
carrellata a 360° attorno al protagonista verso la fine. Un uomo impenetrabile
seduto su un divano sfasciato nel bel mezzo di una strada deserta, circondato
da una miriade di oggetti indefiniti gettati da una
finestra, in attesa che il dovere personificato nella non ben definita figura
di un omino formale e imperturbabile che lo vuole riportare sul set (un
grandissimo Tim Roth ), lo
venga a riscuotere.
Wenders cala forse nel finale, si abbandona ai
dialoghi quando già le immagini avevano detto tutto e
chiude lasciando intravedere, nella sensazione diffusa e pacata di amarezza,
una labile vena di buonismo, giunta probabilmente da
quel happy ending fantasma dove la figura angelica di
Sarah Polley concilia (seppur parzialmente) quello
che per quasi due ore era apparso inconciliabile.
E’ Bill Murray invece
il corpo invecchiato e l’anima malinconica nelle mani Jarmusch.
Lo si ritrova come lo si aveva lasciato a Tokyo: seduto su un divano, eretto
con le mani intrecciate sulle ginocchia, immobile e con lo sguardo assente.
Per tutto il film la sua personalità apatica,
accompagnata dal solito repertorio di sguardi perplessi e sfottenti, farà da
padrona. Un amabile zombi in tuta da ginnastica che per
comunicare preferisce affidarsi agli sguardi e ai silenzi anziché alle parole.
Tutta la pellicola è costruita su questa figura e stilisticamente Jarmusch non fa altro che assecondare l’attore. Una
sorta di classicismo rallentato, di ampio respiro,
pochi movimenti e molta fissità prolungata, che sottolinea, in certi casi
esaspera, vuoto e solitudine del protagonista. Sequenze che
vivono di una sottilissima ironia (quella che manca al tedesco)
“incollate” da continue morbide dissolvenze. La musica si
affida a sonorità perlopiù malinconiche che partono dal soul
ed arrivano all’ etnica.
Don Johnston è un don Giovanni ormai pensionato che
di donne ne ha sempre avute troppe e che mai è
riuscito a metter su famiglia. Una lettera anonima rosa scritta con
dell’inchiostro rosso lo mette al corrente
dell’esistenza di un suo figlio di ormai vent’anni.
Scherzo infelice o amara verità?
A Don sembra interessare poco ma l’amico vicino di casa, un simpatico alterego appassionato di gialli, lo metterà sulla pista
giusta: un viaggio per incontrare le cinque probabili madri di suo figlio e
recuperare gli indizi necessari a svelare l’arcano.
Un dramma esistenziale che si tinge di giallo (anche lo
spettatore come Don è alla ricerca d’indizi) e rosa (tutte le donne lo
metteranno in crisi).
Un altro viaggio nel passato, come molti se se sono visti al
cinema, ma con un protagonista eccelso nel…non far nulla ed una ricca
cornice di donne capace di soddisfare un po’ tutti i palati.
Dopo vent’anni le persone cambiano e Don dovrà
fare i conti con delle donne diverse, in parte sconosciute, riscontrando come
la sua rigidità lo abbia invece mantenuto sempre lo
stesso, immutato.
Quando Don torna a casa, ritroverà appassiti quei fiori che alla sua partenza erano vivi e profumati, imparerà sulla propria pelle, ed
insegnerà poi, a metter via il passato e a non preoccuparsi del futuro.
Le due diverse trasposizioni di quella che poteva essere ridotta come
un’unica idea sono facilmente distinguibili.
Quella del tedesco è una regia attenta a sfruttare a pieno il simbolismo insito
nell’inquadratura affidandosi ad un’attenta ricerca sia cromatica
che di composizione, lasciando però poco chiare alcune reazioni tra i
protagonisti.
Jarmusch è invece più pacato
e sotterraneo, e dalla sua parte ha un protagonista che d’ironia ne ha da
vendere solo a guardarlo in faccia. E’ il regista stesso a ricordare (a
Cannes) come il film sia stato pensato e costruito facendo fede alla figura
solitaria ed ipnotica di Bill Murray.
Il regista preferisce far lavorare attori e spettatori senza tirare
conclusioni, si affida ad un finale aperto che non sempre accomoderà chi guarda
ma che si mantiene comunque in linea con il carattere
indefinito del film.
Wenders non convince invece nel finale e fallisce nel
tentativo di divertire (anche se sembra averne l’intenzione) tranne nelle poche sequenze in cui può giocarsi quel asso
nella manica che di nome fa Tim Roth.
Parafrasando in gergo calcistico: la partita va all’americano che va in
goal su rigore sebbene il tedesco sia sceso in campo in formazione
spregiudicata.
(11/12/05)