NON TI MUOVERE

REGIA: Sergio Castellitto
CAST: Sergio Castellitto, Penelope Cruz, Claudia Gerini
SCENEGGIATURA: Sergio Castellitto
ANNO: 2004


A cura di Pierre Hombrebueno

L’INSENSATEZZA DELLA VITA

Il plongè come morte. La stessa pioggia (magnifica, cinematografica), è morte. E dolore, e sofferenza, e perdita, e ricordo, e vago. Se seguito poi da attacchi in asse (attacchi quindi lotta), diventa una corsa contro il tempo per la vita fino ad un primo piano su un casco vuoto che si riempie di (gocce d’) acqua piovana (lacrime: anche il cielo piange).
E’ l’inizio (o il decesso?) di Non ti muovere, la storia d’amore più sofferta e sofferente che si sia vista sui grandi schermi negl’ultimi anni insieme a quel Crying out love, in the center of the world di Isao Yukisada, pur essendo queste due opere irrimediabilmente antitetiche: adulto(adulterio) contro innocenza(conoscenza)
à sesso(carnalità) contro purezza(castità). Entrambi però, chi più chi meno, vivono del ricordo che si fa speranza e vita vivente, ancora una volta di (dis)illusioni (ah, quanto è ricorrente questa parola quando si parla d’ (film d’)amore), di proiezioni oniriche, quindi invisioni(invasioni) e deliri post-mortem, di flashback (enfatizzati) e flashback (enfatizzanti).
E Non ti muovere si concepisce con violenza, con uno stupro iniziale montato in stile godardiano (quindi immontato?), forse per sottolineare la frammentarietà del fisico/psiche/spirito (di entrambi i protagonisti), o direttamente frammentare la storia intera fatta ad atomi separati e conciliabili solo dal caso, un po’ come quell’indifferenza/diffidenza iniziale tra Sergio Castellitto e sua moglie Claudia Gerini, destinata a diventare differenza solamente con la nascita della figlia Angela. E proprio questa figlia diventa non solo la causa occasionale per viaggiare nella memoria, ma anche e soprattutto per tessere ed unire i vari pezzi del puzzle drammatico su cui si fonda la narrazione. C’è tanto, ma tanto dolore in Non ti muovere, a cominciare da quell’amore adultero tra Castellitto e Penelope Cruz, in fondo morboso ed ossessivo, fatto di carne ma anche di redenzione (riscatto) da un punto morto. Il dolore è urlato (ma non udito), magari con una scritta sulla sabbia (“ho violentato una donna”), oppure pisciando sulle piante, o ancora comunicare i propri segreti all’altro balcone mentre la moglie fredda e insensibile s’aggrappa al cellulare, anestetizzata. In fondo, in quest’opera sono tutte vittime, personaggi meritevoli d’attenzione e attrazione, personaggi circolari di questo grande circo(e cerchio) che è la vita: Castellitto un po’ cowboy perdente (e quella scena finale di lui che si dissolve allontanandosi è più di un richiamo a quegl’anti-eroi eastwoodiani che pian piano lasciano lo schermo nel vuoto, o il vuoto nello schermo), e Penelope Cruz Pierrot il clown prima stuprata poi prostituizzata poi amata e infine uccisa(?), colpita da quella strana empatia che è la sindrome di Stoccolma - =La sindrome di Stoccolma, storicamente, è collegata al comportamento di ostaggi che, in mano ai sequestratori, finivano per simpatizzare con gli stessi e a considerarli non dei delinquenti bensì degli amici – cit.=.
Come a dirci che sentirsi amati conta più di qualsiasi dolore, dolore che segna efficacemente la fotogenia dei due personaggi principali, in particolare proprio la Cruz, la cui sottoposizione al trucco pesante ne delinea ogni disgrazia passata (non ci meraviglieremo più di tanto quando confesserà di essere stata abusata dal padre) (l’essere diventa apparire), evocando quella sporcizia sensitiva (ha pure i pidocchi, confessa) che si disegna anche nell’ambiente circostante nero come il marcio più schifoso (il regista è ottimo costruttore di atmosfere, oltre che di sensi). Eppure, proprio per compassione desidereremo il lieto fine per lei. Sergio Castellitto non può vivere senza di lei (“oh, si che puoi” le risponde). E davvero, forse, dopo è come se lui fosse morto, fantasma galleggiante aggrappatosi alla re-incarnazione dell’amore (la figlia?) per avere ciò che non ha mai avuto (una famiglia vera), perché una delle superfici tematiche di Non ti muovere è proprio la famiglia, queste famiglie dai broken home che si riflettono soprattutto nel passato: i ricordi d’infanzia del protagonista, ma anche la (pre)famiglia che doveva essere con Penelope Cruz. Dunque, come classicità c’insegna, il passato si ritrasforma in presente, i ricordi si tramutano in miraggi, in vortici che confondono la vita con la realtà, il sogno con l’utopia, e le decisioni in bivi da cui dipendono gioia morte ed eternità.
Non ti muovere è un ciclo di vita (e di vite) dove è facile portare sofferenza o gioia suprema con un semplice gesto, una semplice scelta. Per questo, fin dal titolo, Non ti muovere implica l’immobilità, la cautela, ma anche la paura. Il senso diventa dissenso, e quindi grandiosamente funzionale è la canzone portante dell’opera, “Un senso” di Vasco Rossi, che (in)conclude la narrazione. Inutile cercare un senso, perché tutto è così caoticamente insensato. E non è cazzo di nichilismo. Ma attesa.

(“Domani arriverà, domani arriverà lo stesso”)

(08/02/06)

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