UNA NOTTE AL MUSEO
REGIA: Shawn Levy
SCENEGGIATURA: Ben Garrant, Thomas Lennon
CAST: Ben Stiller, Dick Van Dyke, Owen Wilson
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
NOUVELLE CINEMA DE PAPA
Negl’anni più turbolenti dei giovani turchi in veste di critici fra le
pagine dei Cahiers du Cinéma, vi era una propaganda di rifiuto
verso quel modus operandi definito da
Truffaut come “Cinéma de papa”, attaccando, forse
ingiustamente, cineasti come Autant-Lara,
Clouzot, o Clement. Le colpe attribuite erano di classicismo generico del
Cinema Francese – divisione di ruoli ben netta (regista –
sceneggiatore – montatore – e così via dicendo) –
prevalentemente girato in Studio secondo modelli elaborati negl’anni
30’. Ovviamente, sono vestiti stereotipali che si usano per convenzione
attributiva, perché nella sua sostanza, il carattere che contraddistingueva il
Cinéma de papa era essenzialmente la sua mancanza di un progetto autoriale,
finendo dunque per realizzare film concepiti come prodotti confezionati, e non
di reale riflessione del proprio filmaker, il quale si riduce, volente o
nolente, a nient’altro che un tecnico di scena tramutato in mestierante.
In sostanza, fare film come fossero ovetti Kinder, pura fruizione industriale e
senza reale vocazione artistica, personale.
Ora, potremmo facilmente rivolgerci questa domanda: “Che cosa è
diventato, oggi, il Cinéma de papa?”. In un calderone di sviluppi
tecnologici (e anche teorici), nascita e morte di generi, il Cinéma de papa
sembrerebbe essere quello più diffuso negli Stati Uniti di oggi, raggruppante
la maggioranza di quei film, come una Notte
al Museo, privati di un autore e confezionati su misura per il loro
pubblico (il grande pubblico) nel modo più pulito (disneyano?) possibile.
E sono puro Cinéma de papa perché in verità non sono film brutti. Almeno guardando
la semplice messa in scena da un lato oggettivo. Concordiamo con la redazione
di Sentieri Selvaggi quando afferma
che “la sua (di Shawn Levy) mdp si muove nel Museo newyorkese con una
levità che contrasta con la pesantezza della macchina-cinema che si trova a
(dover) governare. Gru, carrellate, piani-sequenza, tutto ad inseguire la
figura-corpo-atleta di Ben Stiller, acrobata
dell’inquadratura che corre, si tuffa, entra ed esce dallo schermo a
balzi”.
Dal punto di vista puramente registico (come potrebbe considerarlo Mamet nei suoi libri, tanto per
intenderci), Una notte al museo è
girato a dovere. Appunto, a “dovere”, che in fondo ci fa
rimpiangere della parola “piacere”. E il termine “punto di
vista registico”, viene forzatamente percepito sotto una valenza
manualistica, il lavoro di un impiegato, che ha il suo da dire nel posizionare
la macchina da presa per optarne i singoli movimenti. Aggiungiamo di più: i
raccordi tra i quadri sono fluidi e scorrevoli, privi di un qualsi-voglia pecca
nella fruizione narrativa, con un occhio particolarmente rivolto verso quei
comandamenti del Cinema Classico Americano come disautorazione e
cristallizzazione degl’ingranaggi della fiction. Un film come Una notte al museo, se avesse la fattura
del bianco e nero, potrebbe essere tranquillamente un lavoro di 70 anni fa, un
po’ slapstick e un po’ Capra
(in tematiche e nella risoluzione finale dell’uomo qualunque e sfigato
che dimostra il suo valore umano).
Detto così sembrerebbe quasi un tesoro nazionale, almeno finchè non arriviamo
al punto principale: ritornando al Cinéma de papa, decenni dopo le critiche di Truffaut, permane ancora il problema
principale, ovvero quello della riduzione visiva come “mestiere
produttivo” e non “mestiere creativo”; detto in soldoni: la
mancanza di una vera interessante idea (di Cinema, di Mondo) da parte di chi
mette in scena l’intera baracca (Shawn
Levy, in questo caso), cioè un percorso leggibile che ci dia lo spazio
netto per definire Una notte al museo
come CINEMA e non solo come FILM, per quanto sia un BUON(?) film. Ciò che si
avverte è la mancanza di un(a) Cinema(tograficità) come creazione artistica,
suggestiva, specchio di un tentativo di esprimere qualcosa che vada al di là
della semplice messa in scena da dispensa universitaria di regia. Perché è
ormai palese, dai tempi più remoti, che qualunque giovane neo-diplomato in una
qualsiasi scuola di regia decente sappia adottare queste nozioni (classiche
americane) e metodologie per metterle in atto. Ancora: qualsiasi neo-diplomato
in una qualsiasi scuola di regia decente saprebbe dirigere come Shawn Levy. Appunto perché
gliel’hanno insegnato a scuola. Sanno che cosa significa raccordare o
girare un piano-sequenza per delineare l’oggetto narrato secondo gli
stilemi pre-imposti. E non solo saprebbero dirigere come Shawn Levy, ma addirittura avrebbero, con tutta probabilità, girato
esattamente come Shawn Levy. Questo
perché egli non ha un’appropriazione personale del linguaggio
cinematografico (come potrebbe averlo un altro classicista, per non nominare Clint Eastwood diciamo semplicemente Ron Howard), né un tracciato di
intimità, di reale fecondazione. In verità Shawn
Levy non esiste, è un’ombra travolta da ogni progetto che affronta,
perché non pretende imposizione all’interno del suo lavoro.
Il risultato è un film che si vede si, ma che non si tocca. Un compito che come
laurea alla scuola forse avrebbe fatto pure scandire gli applausi, ma che visto
in una sala cinematografica lascia semplicemente quell’odore nauseante di
pop-corn.
Passino i raccordi fluidi. E quel piano-sequenza là. E questo plongè qua.
Belli. Eppure continua a risentirsi quel senso, quell’impressione di
vuoto, proprio perché opera incollocabile da nessuna parte se non in un filone
di deja vù messa in scenica. E’ proprio vero che, come diceva Chabrol: “la macchina da presa la
impari a muovere bene in poche ore; a fare Cinema, beh, quello potresti non
riuscirci mai”. E probabilmente è questo, oggi, la definizione più giusta
per delineare ciò che è diventato il Cinéma de Papa: saper muovere bene la
macchina da presa, senza riuscire tuttavia a fare Cinema. Cinema che non sia de
Papa, s’intende. Sottolineando ulteriormente il nostro bisogno disperato
di auteurs, oggi, più di 60 anni fa, come ultima risorsa di salvezza verso un
Cinema che sappia ancora pulsare i sensi primordiali dell’Arte. Shawn Levy, in un panorama di questo
contesto, continuerà a fare solo danni e superficialità, ed è compito della
cinefilia boicottarlo.
(11/02/07)