OLIVER TWIST
REGIA: Roman Polanski
CAST: Barney Clark, Ben Kingsley, Leanne Rowe
SCENEGGIATURA: Ronald Harwood
ANNO: 2005
A cura di Alessandro Tavola
CLASSIC ON A CLASSIC BY A CLASSIC
Acquietarsi del folleggiare visivo. Capita a tutti, a
un certo punto della vita, anche (soprattutto, anzi) a quei maestri che hanno
sempre impressionato (pellicole e teste) principalmente coi fatti propri.
Questione di età, di esperienze, di bisogni. Fino ai
60 ci raccontava di perversioni sessuali, adesso a 72
l’età pensionabile riecheggia.
Stupido ma legittimo trascendere subito dal film e ricollegarlo ad altri nomi
di queste settimane, a Benigni che bissa lo scheletro
del suo film sull’olocausto verso altri tempi e altri lidi, a Burton col suo film per la prole a prima vista pedocentrico. E Polanski sta nel mezzo.
E quasi sembra blasfemo buttarlo al volo nella
mangiatoia generale.
Un Oliver Twist che stupisce non
più non meno di quanto ci si aspettasse –che ci starebbero bene dei pop corn- e anche guardando vergini dalla lettura si capisce
che si tratta di una classica trasposizione di classico, fatta da chi il
classico lo mangiava e poi elegantemente lo rigurgitava in incubo-cinema, qui
in autoriale semplice masticazione da brutto
sogno-film. E la storia scorre, con
l’infante orfano tra i balordi, buoni e cattivi.
Quarant’anni di cinefile
masturbazioni sfociano (ancor più che nel Pianista) in applicazione moderata
del (ipotetico) decalogo polanskiano.
Perversioni, attrazioni maligne, crudeltà, sporcizia dentro e fuori, cupezza
palpitano racchiuse in Bill, tutt’uno
col ghetto che rappresenta (come un altro Bill di un
altro film), con gli altri personaggi, letterari manifesti di tossicità e
società. Picchi di orchestrazione emotiva.
Pioggia, fango, mattoni espressioni di Londra, marrone grigio nero di muri cose
vestiti, teatrale eccellere di atmosfera sudicia di
nera favola. Picchi di orchestrazione visiva.
E Kingsley (manco a dirlo) funziona, cast minorenne
(manco a dirlo pure questo…) di prima scelta, volti già vissuti e
tristezza recondita nei volti dei fanciulli, quell’Oliver più lost in London di quanto già non fu Adrien
Brody lost in Varsavia,
quella Nancy dai boccoli rossi e il seno prorompente.
Un giorno Barney Clark
prenderà a calci Joel Osment.
Parentesi di pleasure cinefilo
che decolla molto dopo l’inizio in un tran tran
adatto al pubblico, non il magico non succeder nulla di Cul-de-sac
ma i ritmi di Frantic, non il mentale de L’inquilino del terzo piano ma il tessere narrativo
di Chinatown.
So, visti i precedenti, siamo nell’ordinario, ma le condizioni per il
cine-trip ci sono tutte, e saranno 130 minuti di abbondante narrativa visiva.
Nessuno pronuncerà ca-po-la-vo-ro visto
che non c’è l’elemento Shoah ad
ammiccare agli animi, ma sarà forte il bla bla bla di chi si scimmia con le
trasposizioni e di chi non vi vede Il Pianista o il Polanski
d’epoca.
Un detto diceva «Gli anziani danno buoni consigli perché non possono più dare
il cattivo esempio.». Direi fa al caso.
(24/10/05)