HARRY POTTER E L’ORDINE DELLA FENICE
REGIA: David Yates
SCENEGGIATURA: Michael Goldenberg
CAST: I soliti feat. Imelda Staunton et Helena Bonham
Carter
ANNO: 2007
A cura di Alessandro Tavola
CHI COSA COME QUANDO DOVE PERCHÉ
Sarà una cosa solamente del sottoscritto qui dentro, dettata forse da motivi
strettamente extracinematografici e attitudinali ma l’uscita di un Potter suona sempre come una chiamata,
una visione doverosa, una catena che ogni tanto, un anno sì e un anno no,
stringe, fa voltare, prende l’attenzione. Probabilmente a causa di quel
tempo in cui Columbus ci aveva fatto
annusare la possibilità di una saga cinematografica degna di nota, previsione
dapprima smentita e poi ravvivata dal gioiello che fu l’Azkaban di Alfonso Cuaròn e velocemente rimessa a
tacere da Newell. I miti sono fatti
più che altro di pensieri e deformazioni, non di fatti, ma con loro la speranza
rimane viva, a tal punto da mettersi in fila e
assistere. Invano. Prima e durante la visione.
Harry Potter e l’Ordine della
Fenice è l’amplificazione massima di tutti i difetti che affliggevano
i precedenti capitoli della serie (il terzo a parte): essere una mera cozzaglia
di elementi presi e messi uno vicino all’altro,
uno dopo l’altro, su una linea retta discontinua, una finta treccia di
nodi di (potenziale) cinema che però non diventano tale. Ora come ora viene ben
chiaro alla luce quanto i movies di Harry
Potter nascano e vengano trattati,
dall’inizio alla fine del loro processo produttivo evidentemente,
semplicemente come una trasposizione dei libri da cui sono tratti;
un’operazione di commutazione che non ha nulla di più rispetto a cose
come Ho voglia di te o Il codice Da Vinci.
Io non ho mai letto uno dei libri della Rowling,
ma pare evidente quanto lo script de
L’Ordine della Fenice sia
un “togli (descrizioni, fatti, sintagmi letterari) e sostituisci (parole,
avvenimenti di raccordo, effetti speciali)” dal libro stesso; e se non è
così: peggio, poiché avremmo a che fare con sceneggiatori veramente incapaci ed
un regista brancolante nel buio. Perché, se c’è una
storia, essa è resa in maniera così sgangherata e poco adatta
all’informare cinematografico, portando più volte quasi a dubitarne la
presenza, tanto che, partenti i titoli di coda, si ha la sensazione di non aver
visto assolutamente nulla – narrativamente, visivamente, attorialmente.
Gli effetti visivi sono la naturale evoluzione tecnica e il deprimente
ristagnare creativo di quelli del 2001, derubati del proprio fascino e
affievoliti dal ripresentarsi già da tempo ormai
solito; definibili inutili, quali sono e quali sarebbero se non vi fossero
altri vuoti da colmare (più o meno tutti gli approcci coi quali ci si può
avvicinare ad un film).
Gli attori sono tali solo di nome, ma non di fatto: dagli ormai muffiti
ragazzini e ragazzine (che in realtà, perlomeno tra questi frame, non hanno mai
recitato) ai grandi, grandissimi nomi che costellano qualche scena (per come e
perché pare essere una prerogativa di chi gli eventi già li conosce), che
spenti e zombificati proprio dei fantasmi e stregoni (o qualunque siano i nomi
datogli) vanno a incarnare. Pare esserci una certa triste ironia in tutto
questo.
Se i libri avevano dei climax, fanno parte del
materiale scartato. Se gli sceneggiatori ne avevano
previsto qualcuno, Yates è un
incapace. Se Yates stesso pensa di averne creati è un handicappato. Se lo scopo era non
presentarne ma mantenere una certa tensione per tutto il tempo tanto vale che si tuffino tutti contro le pale di un
elicottero sul tetto di un grattacielo in un’umida notte invernale. Ron Howard, col suo sguardo da George W. Bush, aveva più dignità e
decoro anche quando si è messo a fare lo zerbino.
E se non ci sono momenti a cui stare dietro, effetti
speciali di cui godere, personaggi di cui apprezzare le emozioni (Il famoso
bacio? Messo a cazzo, anche lui senza un perché o un per come), musica da
ascoltare (non c’è Niente da dire), cosa rimane? Beh, parole, parole,
parole… L’Ordine della Fenice
è più verboso di un film con Bogart e
in overdose di nomi almeno quanto un libro giallo classico di
Agatha Christie o Ellery Queen.
Un film che fa schifo? No, non è un film. È un plug-in di un libro. Se ci
fossero stati cavalli davanti e dietro la macchina da presa
il risultato sarebbe stato pressappoco lo stesso. Non stile e neanche maniera
e, la cosa peggiore, neanche l’intenzione.
Perdonatemi se non ho detto niente, ma non avevo
niente di cui parlare e quella poca forza di volontà che avevo è stata
assorbita da un ferroso e arrugginito logo Warner.
E il bello è che ci spero ancora.
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