UN’ OTTIMA ANNATA

REGIA: Ridley Scott
SCENEGGIATURA: Marc Klein
CAST: Russel Crowe, Albert Finney, Archie Panjabi
ANNO: 2006


A cura di Marco Compiani

UN NETTARE D’OTTIMA ANNATA

Il giovane Max Skinner (Russel Crowe) chiede allo zio Henry (Albert Finney) “QUAL’ E’ LA COSA PIU’ IMPORTANTE DEL COMICO” e la risposta, illuminante per comprendere la procedura strutturale dell'opera, è “I TEMPI”.
E’ in questa affermazione che Ridley Scott interpreta la sua commedia, in quanto il suo  sguardo (e di conseguenza il nostro) decolla in una retrospettiva che affonda nelle radici della Commedia hollywoodiana anni 30’-40’, la cosiddetta Sophisticated Comedy, un genere supersfruttato ma che si è distinto per numerosi capolavori tra cui il suo manifesto per eccellenza Susanna di Howard Hawks.
Non vi sono rimandi espliciti a opere ben definite, ma questa osservazione è da tenere a fuoco per apprezzare e comprendere le scelte stilistico-formali adottate dall’autore: accentuazioni iper-sentimentali, ritmo (montaggio) serratissimo, movimenti di macchina virtuosi e pieni di brio che si incollano in una struttura di causa-effetto mirabile, mentre la narrazione priva del flagello dei tempi morti è articolata con una padronanza, una scorrevolezza, una lucidità-razionale che si mantiene tale in tutta la durata della pellicola.
Una particolare attenzione è da porre all’inquadratura iniziale, l’apertura del sipario, in quanto Scott vi racchiude quello che è il motivo, il senso dominante del suo percorso: uno stagnetto che riflette il casolare in Provenza dello Zio Henry. La macchina da presa si ferma nel movimento mostrando l'oggetto con il suo riflesso, che oltre ad essere un chiaro rimando alla realtà del cinema, è elemento profetizzante della dialettica che avvolgerà l’intero proseguirsi dell’opera: una duplicità contrastante, una frattura che deve essere colmata attraverso il ritorno al passato perduto.
Infatti Max Skinner (adulto?) è l’incarnazione di un cinismo-desensibilizzato dell’era moderna, della metropoli, jungla asettica dove l’unica forma di “arte” riconosciuta è l’ingegnosità nel fare i soldi. Mente geniale della borsa, il protagonista (gran pezzo di merda) domina un contesto alienante, un non-luogo per il sentimento e una violenza per i sensi, succubi delle protesi della tecnologia e della (in)comunicazione. Schermi per controllare l’andamento delle obbligazioni, telefoni, cellulari, navigatori satellitari ecc..: l’uomo d’affari (e inevitabilmente l’uomo tout court del presente) è isolato in un sistema meccanicizzato nel quale gli viene negata la propria natura e la propria emotività.
Immagine speculare ribaltata della realtà Londinese è invece il piccolo locus amenus della Provenza, dove il nostro sguardo non può non rimanere inebriato dalla poesia dei colori e della luce, echi della pittura post-impressionista (Cezanne) che liberano e accompagnano alla redenzione il peccatore Skinner. In questo contesto è l’acqua l’elemento purificatore, un archè ritornante nell’operazione, a cominciare dalla piscina, nella quale Max bambino si tuffava con gioia, una vaschetta che diventa vera porta della riconquista: Ricadendoci in età matura, oramai svuotata ma piena di sterco di vacca, egli verrà depurerato del suo essere-merda (i getti d’acqua lo colpiscono violentemente, lo risvegliano, lo amalgamano in una melma putrida - un battesimo per ritornare a galla). La “certezza” megalomane di Max (ironicamente ha lo stesso nome del Gladiatore wrestler che tanto ci ha “esaltato”: autoironia? Perché no?!) si disgrega in un ritorno dell’infanzia, di quella innocenza dimenticata, che il nostro sguardo vendemmierà nella propria contemplazione.
I sensi si rivitalizzano nell’odore della terra nella luce del sole, nella semplice complessità del paesaggio, (che esorcizza la complessità semplice dei grattacieli); la (s)perfezione viene negata dal marchio della genuinità, non a caso il protagonista mangia istintivamente un pomodoro macchiandosi la camicia, simbolo di una falsa purezza doverosa da perdere.
Il cinema ha nuovamente compiuto il suo miracolo, ci ha allontanati dal torpore gelido dell’industria (dove il Vang Gogh è solo riprodotto, esiliato dalla sua condizione di opera d’arte, congelato nella cornice consumistica e intellettualoide) per riacquistare il ruolo di macchina dei sogni, perché non sperare quindi in un futuro con un ottimo vino?
Ridley Scott, che davamo per morto e sepolto dopo Le Crociate, è resuscitato (sarà la forza di Gesù Bambino sotto il Natale?), riconquistandoci una fetta di cuore. E non è poco.

 

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(19/12/06)

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