PAPRIKA

REGIA: Satoshi Kon
SCENEGGIATURA: Satoshi Kon, Seishi Minatami
ANNO: 2006


A cura di Alessandro Tavola

VENEZIA 06’: RIDATECI BRASS!

A Venezia 63 Paprika fu capostipite di una grande trilogia, pulsante e sincera, quasi del tutto organica e naturale, nata per gradi, visione dopo visione. Dapprima considerando il caso singolo, poi forti di un’accoppiata di pellicole quasi misteriosa nel suo insieme, in un aumento costante di fascino morboso, attraverso un innamoramento compulsivo e dalle tendenze suicide, nelle menti dei positivisti le speranze si rarefacevano, istante dopo istante, sempre più vane, ansimanti, secondo un istinto quasi primordiale, animale, fino all’appuramento di ogni dubbio, sotto ogni aspetto.
Questa trilogia è quella delle DELUSIONI NIPPONICHE DELLA SESSANTRATRESIMA MOSTRA D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA, che conta tra le sue file:
Gedo senki di Goro Miyazaki
Mushishi di Katsuhiro Otomo
Paprika di Kon Satoshi
I tre titoli, forti del nome del proprio regista (o di suo padre, nel caso di Miyazaki junior) e di un’ammirazione smodata nei confronti di un certo cinema giapponese, da decenni sempre più avanzato di quello occidentale, soprattutto nel campo dell’animazione, avevano trascinato con se delle forti aspettative, potenziate dal fatto che due film su tre fossero in concorso.

Ma viene quasi istintivo non dire nulla, non spendere più di troppe parole e troppi minuti per un film verso il quale sono stati sentiti buttati al vento pure i minuti della visione, che fortunatamente erano solo 90.
Perfect blue e Tokyo Godfathers evidentemente appartengono ad un altro periodo, così come le produzioni televisive di Paranoia Agent. È un dato di fatto.
Paprika non riesce ad offrire allo spettatore nulla che non sia stato già visto, sotto ogni aspetto, in un film d’animazione giapponese: si parla di sogni, di aziende assetate di potere, dei destini del mondo in mano a un mazzetto di personaggi di varia natura. E c’è da dirsi «Fin qui tutto bene.», ma la situazione non prende mai una piega decisa, arranca in blabla e bumbum e tutto si riduce ad un gruppo di macchiette (l’obeso, il professore, la ragazzina, lo spiritello) che tentano di contrastare il cattivone di turno, ovviamente riuscendoci, in un lento accumularsi di carnevalate che, dopo la delizia visiva delle primissime scene, rimangono sempre uguali a loro stesse: il medesimo accumulo di elementi appartenenti ai sogni dei protagonisti che vede l’unica differenza nel numero di oggetti e bestiole presenti sullo schermo.
Sarà pure la storia più vecchia del mondo, quindi immortale, ma se la messa in scena è mummificata diventa intollerabile.
Mancano di carisma e anche di puro gusto giullaresco i protagonisti e antagonisti.
Il messaggio di fondo è quello della solita torsione ormai stropicciata dell’anticapitalismo, che qui traspare solo come un buoni vs cattivi, con una filosofia di fondo che, ammesso che ci sia, non si vede.
I mostri giganti non mancano, le distruzioni colossali neanche.
Il design è stupendo, limpido, forse perfetto.
I colori soavi e tenui come acquarelli.

Ma un’ora e mezza di disegni privi di imperfezione non bastano a fare un film.

L’unica catarsi arriva a luci accese e imprescindibilmente il pensiero si rivolge al Tinto e a quella vhs ormai ingrigita contenente il Suo di Paprika.

(18/09/06)

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