PIRATI DEI CARAIBI – LA MALEDIZIONE DEL FORZIERE FANTASMA

REGIA: Gore Verbinski
SCENEGGIATURA: Ted Elliott, Terry Rossio
CAST: Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley
ANNO: 2006


A cura di Alessandro Tavola

MOLTO PIU’ DI UN (MEZZO) SEQUEL

Ricordandoci di essere il terzo mondo della distribuzione, arriva anche in Italia a quasi tre mesi dall’esordio USA, Pirati dei Carabi – La maledizione del forziere fantasma (La maledizione della Prima Luna 2 per il volgo) a fare becchime d’incassi, postille della diffusione mondiale, con il miliardo di dollari al box office già superato da tempo.

Quasi sicuro il successo, legittimi i dubbi sull’effettiva riuscita del film, fortunatamente, come da speranze riposte, La maledizione del forziere fantasma segue le più odierne leggi del sequel da saga: così come con Raimi e gli Spider-man, Singer e gli X-men, Rob Zombie e i due La casa(dei 1000 corpi e del diavolo), tanto per citare i più noti, Verbinski trova, forte del successo del primo episodio, carta sempre più bianca e maggiore libertà di audacia nel continuare a far pulsare il mondo da lui in precedenza creato, portando al massimo (diviso due, per ora) il pullulare visivo della Prima luna, il cui spirito d’amore fantasy e la gioia circense erano (evidentemente) tenuti al guinzaglio dalla produzione, boccheggiando estro creativo per tutta la sua durata, con gridi autoriali qua e là, attizzando visivamente, costruendo comunque la vera causa di successo (e di valore) della pellicola.
Ed è così che come il numero 1 portava uno script tipicamente disneyano fatto della solita avventura vissuta dai soliti lui (Bloom), lei (Knightley), l’altro (Depp) e cattivone (Rush) ad essere non “un film per bambini che piace anche ai grandi”, ma una vera e propria opera cinematografica, decisa nelle atmosfere e nelle caratterizzazioni, completa di (ele)menti di testo e sottotesto, grande abbuffata mainstream e dessert per cinefagi; questo numero 2 è il fluire libero di ciò che poteva scaturire dalla visione del precedente, delle trovate visive inespresse (per tempo o per contratto), di tutti i luoghi, gli avvenimenti, le battute, gli abomini irreali e le situazioni impossibili che non poterono avere luogo in precedenza, che ora riescono finalmente a vedere la luce, innalzando il tutto da dolcetto a primo piatto. A base di pesce.

Kermesse di consuetudini avventuro-marittime, tra tribù cannibali e galeoni fantasma, spade e cannoni, mostri sottomarini, porti monotematici, ambientazioni paradisiache, tesori nascosti e sprazzi di magia, dipinto caricaturale che ben combacia con l’immaginario collettivo sul mondo bucaniere fatto di letteratura, cinema, abusi in ogni media e mattoncini Lego, in ingredienti base del mix d’avventura classicheggiante, equilibrista tra clichè e (r)innovamento visivo, punto di forza totale nel suo essere inno tripudiante del grottesco.
Totalmente Autoriale e zampillante di idee, Verbinski ha finalmente la possibilità che ebbe Jackson con ll signore degli anelli nel descrivere il proprio cinema-freak orrorifico, sfruttando fino all’ultimo fotogramma i limiti imposti dal PG-13.
Era seduzione visiva il primo capitolo, mentre ora siamo passati ad un concreto darsi da fare: più Polanski che Spielberg o Peter Pan, il grezzume e lo SPORCO (in fin dei conti, gli uomini di mare erano dei barboni senza terra) la fanno da padroni in ogni luogo e in ogni azione, con ogni personaggio palesemente lercio, sinceramente privo di limitazioni borghesi sulla presenza e l’igiene, con abiti immortali e sudiciume perpetuo, alcolizzati (l’umorismo al rum si spreca), nell’assenza di buone maniere, con l’annullamento del bon ton, di finzioni sociali. Animi disegnati scuri e fumosi come un quadro a carboncino e poi riempiti di densissima tempera, dove il più sobrio e normale sembra una rana, veri nel loro essere iperboli visive, divertimento cartoonesco nel loro essere tipica grafia del concetto di libertà – Discusso, seppur a spanne, nel film – in antitesi con quella società classista che circumnavigano, fatta di parrucche e uniformi, asetticità, mancanza di fantasia.
Assenza d’eleganza convenzionale – dall’entrata in scena di Depp tra cadaveri e ossa al cameo/spoiler del finale, dove chi semplicemente addentando una mela si imbratta di succo la barba – che diventa vera classe e personalità concettuale/grafica, nobiltà di celluloide ed eccesso sorridente di visionarietà, intimo feticismo in cui è tutto intinto, voyeurismo per lo schifoso e per il mortale. È più Monkey Island che Corsari, visto che se da una parte abbiamo le leggi dei pezzi di carta, dall’altra abbiamo quelle del surreale e del MACABRO, di quello forte e orrido ma comunque buffonesco, che farebbe pensare più a una produzione Corman o Fulci piuttosto che Disney o Bruckheimer, o ancora Tales from the crypt o sprazzi burtoniani: ammicchi necrofili, mezzi di fortuna e gabbie costruite con ossa umane, scimmie immortali (in un gustosissimo ammicco alla scena nascosta del primo film), uomini pesci e molluschi (cioè non semplicemente, antropomorficamente, o l’uno o l’altro, ma immondo collage di più animali marini) in carrellate ravvicinate e squoiamentii, violenza imperversante, mostri marini giganti dipinti in tutto il loro viscidume, cuori vivi e pulsanti messi prima in scrigni e poi in primo piano, nessun perbenismo ma estremo FUNAMBOLISMO creativo-assoluto-totale, in Cinema pirotecnico e chiassoso, rocambolesco, volutamente saturo e svagato come bambini durante l’intervallo (perché Verbinski la lezione di cinema l’ha data, e anche da poco, con The weather man), in una costruzione che punta prettamente al divertissement action: sì, perché questo Pirati dei carabi – La maledizione del forziere fantasma è solamente la prima metà di un secondo capitolo, come succedeva con Matrix reloaded e Matrix revolutions, anche se qui il risultato è di tutt’altro spessore, e quasi verrebbe da chiamare questi sequel pirateschi VOLUMI…
Nonostante la durata leggermente oversize (150 minuti, ma oggi è indole accettata raggiungere le due ore e mezzo) e il fatto che il film si prenda il proprio tempo tra dialoghi, siparietti comici e soprattutto nell’accumulare un sacco di avvenimenti, superflui al fine della narrazione, la storia è di poche righe ma di molti rimbalzi da vecchio pinball (splendente di ruggine). Ed è proprio a quest’ultimo che il trambusto clownesco sembra tendere la mano, tra le numerose e non brevi sequenze d’azione, spazianti da inseguimenti cannibali a duelli tra navi, con Jack Sparrow in situazioni da Will Coyote, Will Turner in duelli più cupi e dal tono romantico, una Elizabeth che tenta di gigioneggiare e un villain che ha del fantasmagorico (dell’opera), tutto in un chiasso crescente, mai perfetto ma sempre piacevole, tumultuoso di gommosità Looneytunesiana. Da spiagge da cartolina al più cupo mare aperto manda in giubilio visivo, sotteso da brividi rilassati ma mai da (banale) pop corn.
I personaggi si evolvono, fino a un momento complesso ma morto, che stagna in un punto di domanda, in un Beautiful, conglomerato di rapporti che necessitano assolutamente un sequel, se non di rimanere così, in un limbo paladino per alcuni e di segreti mai svelati per altri.
Alla famigerata domanda «Com’è Depp???????» ci si sente di rispondere: è radioso illuminante assurdo incantevole proprio come nel primo episodio. Solo che proprio per questo manca l’effetto sorpresa. Solo che nel mentre gli altri interpreti sono migliorati. Ma siamo comunque (narrativamente) ancora a metà.

Carrozzone omnio, gran buffet variopinto, coagulato di puro gusto VISIVO, solitamente ghettizzato o preso con pinze snob nel suo essere propriamente maiuscolo, e allo stesso tempo braccia aperte verso il mainstream, che fa spalancare le menti (o metterle in dolce standby) nella sua semplice completezza cine-pop.
Glorioso portabandiera di quel grasso, pomposo, esagerato Cinema che non nasce dai fumetti o dai libri, ma propriamente per la sala buia, fatto di ambienti e avvenimenti irreali, soldini e occhi illuminati, incantevole in ogni immagine, in semplicità quasi puerile. Nel voler essere veramente Per Tutti - per i poveri e per i ricchi (di testa, di portafogli), per i pensatori e per gli stupidi, per chi vive di cinema o per chi ci va solo in queste occasioni e a natale - questa trilogia dei pirati, diventando tranquillamente l’Indiana Jones degli anni 2000, si avvicina sempre di più a quell’olimpo di saghe immortali che sul podio ricorda il suddetto, assieme a Guerre Stellari e Ritorno al futuro, e, nonostante ci siano evidenti stacchi - d’idee, di stili, di approcci, di contesti sociali – nipote Gore deve qualcosa a zio Steven, così come quest’ultimo doveva qualcosa a mastro George, ma su ogni cosa, oltremodo ci ricorda che i dollaroni americani riescono ancora a darci qualcosa (di nuovo).

(18/09/06)

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