POLA X di Leos Carax
REGIA: Leos Carax
SCENEGGIATURA: Leos Carax, Jean-Pol Fargeau, Lauren Sedofsky
CAST: Guillaume Depardieu, Yekaterina Golubeva, Catherine Deneuve, Delphine Chuillot
NAZIONALITÀ: Francia
ANNO: 1999
L’AMBIZIONE ESTREMA E DENIGRATA
LA POSSESSIONE DEMONIACA DEL GENIO.
LA SPIRALE ENIGMATICA.
L’ESASPERAZIONE.
IL BLUFF (PRESUNTO.
Pola X è in assoluto il film più sfortunato di Leos Carax, l’operazione titanica che in pochi son stati disposti a perdonargli. Ancor più che con Gli amanti del Pont-Neuf, la critica si è accanita e ha anche infierito sul cadavere, peggio di quanto avrebbe fatto Achille con Ettore ai piedi delle mura di Troia. L’eccessivo compositivo e la ridondanza baroccheggiante sono stati ritenuti, in questo caso, troppo narcisisticamente ostentati per poter passare in secondo piano, per concedere il nulla osta, per chiudere un occhio. E allora giù con un Hiroshima di stroncature pressoché concordi, con qualche sparuta voce fuori dal coro a cercare di evidenziarne flebilmente i meriti e la bellezza scapigliata. Naturalmente non poteva che trattarsi di amanti focosi e appassionati di Carax e della sua idea di cinema, epigoni e/o ideologi accaniti del cinema funambolico e bruciante di un artista maudit dallo spirito e dagli eccessi inarginabili e irrinunciabili.
Perché se ami (davvero) Leos Carax, all’anagrafe Alexandre Oscar Dupont, molto probabilmente ti porti a casa il pacchetto completo. Pola X incluso, dunque. Perché del percorso autorialedel malsano e avvelenato ex enfant prodige del cinema transalpino quel film ambiziosissimo e poco baciato dalla sorte è la punta dell’iceberg, il punto di fuga in cui le linee prospettiche convergono con maggiore potenza, lo snodo dopo il quale nulla sarà più come prima: il suo stesso cinema riapproderà infatti solo tredici anni dopo a una insperata e luminosa palingenesi, quell’Holy Motors che del cinema per il cinema è celebrazione sfibrante e ipnotica. Pola X si configura invece quale punto di non ritorno di un approccio alla composizione cinematografica consumato con le nocche sbucciate e la tachicardia costante, a petto nudo e rotolandosi nel fango, tra generosità e messa a nudo, tra impeto totale e slancio generoso, tra completo asservimento del regista al gusto dell’esubero e smania autodistruttiva. Un film che si fa in fretta a stroncare, ma che per chi ha sempre vissuto dal di dentro l’odore di zolfo del cinema di Carax è un tappa imperdibile. Una danza suadente, sublime, voluta e inseguita con lucida follia,che nella sua furia devastatrice rischia seriamente e fascinosamente di spazzare via anche se stessa, attaccata a dei corpi ora più che mai da intendere come detonatori e veicoli politici. All’inizio c’è perfino un quadro bucolico di bellezza abbagliante, di una luce e una simmetria interna così perfette da risultare quasi rinascimentali e neoclassiche. Una scena piuttosto sorprendente per il film che più di ogni altro annega nella speleologia del maledettismo caraxiano e delle sue caverne più oscure e che più di qualsiasi altra sua opera tradisce l’istigazione estetizzante da sempre sottesa allo sguardo dell’autore di Rosso Sangue.
Pola è l’acronimo delle iniziali della traduzione francese del titolo di una delle opere dello scrittore Herman Melville, Pierre ou les Ambiguïtés, storia di un personaggio che la critica ha definito l’Amleto americano e le cui vicende vengono trasferite da Carax nella Francia odierna. La X è invece un’aggiunta di suo pugno, un’incognita, un elemento in più e imprevedibile. Il contrassegno di una ubris luciferina che lo porta a riconsiderare tutto quanto alla luce della sua personale e radicale vena assordante ed esplosiva, il nerbo di un nichilismo adombrato di mistero, la matrice di un incandescente manierismo. Pola X è infatti senza ombra di dubbio l’esasperazione più marcata di tutto il cinema precedente di Carax ma ne è anche la quintessenza più genuina e non mediata da compromessi. Un rincorrersi di tragicità che non lascia scampo, nel suo virare al nero, nel suo furibondo calcare la mano, nell’inesausta ricerca dell’abbagliante veste formale. Leos si concede tutto, fa un film polarizzato e istintuale, non risparmia nulla.
Il protagonista Pierre (Depardieu jr.) sta per sposarsi con l’amabile Lucie, ha un rapporto molto intimo con la madre (un’eterea Catherine Deneuve la cui corsa in moto con trucco sbavato è una gran bella sequenza) che sfiora misteriosamente l’incesto. All’improvviso però irrompe nella sua vita Isabelle (la Yecaterina Golubeva di Twentynine Palms) che dice di essere la sua sorellastra cresciuta nei Balcani. La madre si frappone alla sua volontà di aiutarla ma Pierre decide paradossalmente di andare a vivere con Isabelle a Parigi, in condizioni di povertà prostrata, fedelmente a quell’autodenigratoria essenza bohémien che abita da sempre il cinema di Carax e che viene qui riproposta con lo stesso sguardo metropolitano, post-apocalittico e post-romantico de Gli amanti del Pont-Neuf, in cui il tutto era sublimato dalla natura fittizia e ricostruita in studio delle architetture scenografiche (a riconferma di un progetto folle e oltre quale fu quello che è universalmente riconosciuto come I cancelli del cielo del cinema francese). Una tensione patologica verso la povertà che diventa quasi strumento di sollecitazione erotica, proprio come quell’incesto – in questo caso ben più esplicito e carnale – che i due consanguinei consumano ben presto con passione rapace e protuberanze falliche in bella vista. L’altezzosa borghesia francese fatta di castelli sontuosi e boschi verdeggianti lascia così campo largo a un degrado impoverito che tracima nel melodramma più puro, con la carnalità al posto della rarefazione, il sangue rosso che pulsa nelle vene in luogo del gelido erotismo della prima parte. Il cinema di Carax gioca a carte scoperte, salta sul treno in corsa più rapido e indirizzato verso una morte vicina, prossima allo schianto letale. In questa sospensione tra la vita e il suo contrario, tra il genio e la sua distruzione, tra il trionfo e il fiasco sonoro risiede tutto il suo fascino, la sua indefinita, incompiuta meraviglia. Tra mélo e letterarietà, si consumano e si rincorrono magnifiche scene sotto la pioggia, pistole in bocca, occhi pieni di lacrime, esplosioni di teste e vetri, primi piani convulsi di corpi che vengono portati via mentre la vita li separa per sempre e la tragedia irrompe con un colpo sordo e mortale. La passione lacerante non può non concedere con l’abbrutimento fisico dei due amanti disperati e totali (un tòpos che Carax ha da sempre carezzato), mentre il film cessa la sua corsa traballando, instabile e trascinante. Un cinema tumefatto, potenziato dalla stessa furia iconoclasta di un bacio negato à la Magritte, un cinema pronto a inabissarsi e risalire. In Pola X, vista anche la chiusa ineluttabilità del finale, il cinema di Carax di fatto muore e risorgerà solo poi in un estremo gesto di rigenerazione maniacale e joyciana, quell’ Holy Motors che è atto d’amore e rinnovato inno di testa e di pancia a un cinema tanto cerebrale quanto sanguigno, proprio come il suo autore.