UN POSTO AL SOLE

REGIA: George Stevens
CAST:
Montgomery Clift, Elizabeth Taylor, Shelley Winters
SCENEGGIATURA: Michael Wilson, Harry Brown
ANNO: 1951


A cura di Pierre Hombrebueno

LA DISILLUSIONE DEL SOGNO AMERICANO

Un posto al sole è un film di dissolvenze e sovrimpressioni, di (dis)illusioni e speranze, di trappole e condanne.
La fattura è quella della tragedia, nel senso proprio del greco, quindi un’opera di (anti)eroi costretti a soccombere, dove non esiste propriamente un villain, un cattivo, in quanto le sfumature psicologiche di tutti i personaggi rimangono puramente nell’ambiguità, nella moltitudine gestita da George Stevens con una classicità che porta il rigore, soprattutto nella gestione dei tempi, alla riflessione e al metabolismo, lasciando lo spettatore freddamente in disparte, il che non è necessariamente un difetto. Anzi, proprio questo isolare freddamente il pubblico costruisce quella barriera di passività con cui sono “costretti” ad assistere, incapaci di reazioni, all’epilogo della tragedia.
Dicevamo di dissolvenze e sovrimpressioni, quindi di sogni infranti, dissolti e dissoluti, come un miraggio ectoplasmico che appare e scompare, come a dirci, in chiave pessimistica, che tutto ciò che vorremmo toccare, lo perdiamo in un momento.
E la sovrimpressione assume davvero un’importanza fondamentale per un’opera che parla di scelte (di vita) come Un posto al sole, due scelte che appunto, si sovrimpongono nel soggetto George Eastman / Montgomery Clift. E non è solamente un triangolo amoroso, una battaglia di cuori e di sentimenti, bensì un bivio esistenziale tra vita e vita. Da una parte Alice Tripp / Shelley Winters, che potrà dare al protagonista non solo l’affetto, ma anche la famiglia (un figlio), e una vita di semplicità ai margini della borghesia post-romantica. Dall’altra, Angela Vickers / Elizabeth Taylor, una che garantisce lo sbocco ai quartieri alti, appunto un posto al sole tra i ricchi sobborghi – vips – della cittadina. E sappiamo che quest’ultima è anti-tesi diretta della vita che finora George ha vissuto, avendolo visto fin dalla primissima scena isolato/stracciato/straccione nell’auto-strada chiedendo un passaggio per arrivare in città. Fin da subito è quindi chiaro che il personaggio di Angela (ricca) si contrappone con quello di George (povero), tantochè al loro primo incontro non si rivolgeranno neanche una parola, ma solo un vago sguardo (da parte di lui).
L’alter ego del protagonista diventa Alice, in quanto sono uguali, hanno lo stesso background, e condividono (o perlomeno hanno condiviso) le stesse abitudini, come andare al Cinema il sabato sera (il Cinema che ritorna luogo d’incontro, e in fondo, d’illusioni utopiche).
Ancora una volta si contrappongono (sovrimpongono) due filosofie: scegliere qualcuno che è uguale a me, o scegliere l’opposto (sociale) di me? E ancora: la felicità si trova nell’uguaglianza o nell’opposità? E andando più a chiave del personaggio: lui è davvero uno della bassa (società), o semplicemente un disperso dell’alta (società) che ben presto c’avrebbe, per destino e per casta, fatto ritorno? In effetti lui è un Eastman, ed è il nipote (quasi non riconosciuto, ma sempre il nipote) del magnate della situazione.
Volendo, quindi, c’è in George una chiave di (ri)lettura che ancora una volta si rilega alla dissolvenza/sovrimpressione: George è si nato povero, ma è di sangue blu, ovvero concilierà sempre nel suo personaggio l’ambivalenza povero/ricco ricco/povero. Non è quindi un caso se egli sceglierà Angela, la “rappresentante” delle classi alte, perché in fondo George sente che quel posto gli spetta di diritto, per pre-destinazione, per cognome.
E da qui in poi Stevens ricorrerà ad una rappresentazione quasi thriller, e i ricordi che toccherà la pellicola arriverà fino al Match Point recente di Woody Allen (ed è facile accorgersi che almeno fino a ¾ di film, ne è ideologicamente una copia spiaccicata): la scelta diventa involontariamente catastrofica (per pura sfiga, o gioco del destino), e gl’intrecci, che fino ad allora percorrevano una via lineare, precipitano nel peccato e nell’oblio.
Stevens si ritroverà faccia a faccia con Murnau e il suo Aurora (e quindi faccia a faccia col(la storia del) Cinema stesso) nella scena della barca. E risolve tutto in una magnificenza di sequenza sofferta e sofferente, avvolta da quella nebbia e quel freddo istigazione e ispiratore dei nostri apparati sensoriali epidermici, interrotta, ancora, da una dissolvenza che funge da ellissi, in quanto non vedremo mai la morte / il male in faccia, proprio perché in fondo in fondo, egli ritiene George nient’altro che una vittima del sogno americano, e quindi non qualcuno da odiare, ma da compatire, per cui provare (una quasi) tenerezza.
Perché Un posto al sole non intende nemmeno essere Cinema psicologico (guardacaso, i primi piani sono contati sulle dita di una mano), ma puro cinema emotivo, passionale, e quindi automaticamente irrazionale.
E il finale è tra i più (dolorosamente) romantici della Storia del Cinema, dove tra omicidi, massacri e segreti venuti a galla, a prevalere è la frase: “Ti amo”. Ti amo nonostante tutto ciò che hai fatto. Ti amo per il semplice motivo che sei tu. Non amerò mai nessun altro.
Tutto questo, ancora una volta, con una sovrimpressione, che in questo senso congiunge due versanti che portano il brivido: Amore e Morte, Morte e Amore. Come a dire, che forse, amare equivale a morire e morire equivale ad amare.

(05/02/06)

HOME PAGE