QUALE AMORE
REGIA: Maurizio Sciarra
SCENEGGIATURA: Maurizio Sciarra, Claudio Piersanti
CAST: Giorgio Pasotti, Vanessa Incontrada, Arnoldo Foà
ANNO: 2006
A cura di Alessandro Tavola
MA QUALE CINEMA
Si è deciso solo dopo di scrivere queste parole, rigetto quasi diretto di
pensieri già fin troppo chiari nella mente, di una visione che ha visto
sfociare in quasi lucidità tutte le emozioni da lei scaturite, lontane dal
mistero, dal fascino, dal dubbio che di solito incarnano talune o perlomeno se
ne fanno colonna portante o ancora ammaliante. Niente di tutto ciò.
Quale amore appare come un perfetto
borderò di quelli che sono i tratti malati e stolti, tristi e annichilenti,
pesanti e negativi del cinema italiano di oggi, anzi del suo essere
macchina/tritarifiuti/copincolla.
È una strana bestia il sistema di produzione/distribuzione italiano, con le sue
scelte assurde, i suoi palesi sbagli dai quali non impara mai. Sembra quasi che
al vertice vi sia un vecchio satiro, un vecchio bavoso e arrapato, interessato
sempre e solo alla figa più giovane, solo per dare sfogo ai sui libidinosi
impulsi sessuali aka brama di denaro - essendo un’industria - un boss
magnaccia esoso. Un Miranda Priestly o un Frank Costello – tanto per
paragonare rimanendo in sala – ma senza possederne l’audacia,
l’astuzia e il senso critico. Anzi, ancora di più che questo, pare essere
uno quei tizi ingrigiti e sporchi, che girovagano per le città, vivendo alla
giornata, cercando la maniera più veloce e ipocrita per fare soldi, senza pugno
teso verso un orgoglio, un senso artistico o una vera filosofia, un’etica
morale (e non a caso viene in mente un certo Amico di famiglia), ma solo e unicamente verso le tasche (e le
menti) altrui, come un taccheggiatore sul tram, come un pedofilo con la lingua
penzolante traversa, verso la novità, cercando di corromperla, abusarne e farla
sua, spremendola ciecamente fino all’ultima risorsa. Strumentalizzazione
da carta stampata.
Beh, sì, è così che funziona il business, ma il fatto è che l’apparato
italiano ancora, nonostante ne sia stata padrone in passato, ormai non è più in
grado, troppo provinciale e troppo cieco per riuscire a fare le cose con
coscienza (ma quando mai?) tanto meno con fiuto per gli affari. Vuole
continuare ad emulare l’industria cinematografica per eccellenza, quella
americana, ma non ci riesce, rimanendo come un asino con davanti la sua carota,
prontamente cambiata da qualche (vecchio o nuovo) autore, che però viene
lasciata marcire, putrefare.
Quei negozi dei cinesi, quegli empori sempre incredibilmente pieni di cose,
giocattolini che si rifanno ad altri giocattoli che a loro volta copiano i
principi di un modello originario, al quale non aggiungono mai nulla di
positivamente nuovo – né per ispirazione tratta né per pura creatività.
Il Tamagotchi. C’era l’originale, dal successo inaspettato, e poi
per anni e anni le imitazioni, le parodie, le variazioni sul tema, i rimaneggiamenti,
le perfette copie, le riedizioni; fino al collasso, fino alla scomparsa
praticamente assoluta; perché nell’adoperare così un gioco di specchi
l’immagine si fa sempre più piccola, lontana, distorta, opaca e,
nell’assoluta mancanza di ricerca di un nuovo senso (semantico,
ideologico o anche prettamente (ri)costruttivo), con l’ipocrita
intenzione di continuare a ripetere quello master, di quella o quelle pellicole
che l’avevano generato.
Finita l’epoca del continuo confluire rotativo di crisi di
mezz’età, adolescenze non capite e quindi di scontri generazionali
continuamente livellati, shakerati, sempre ben/mal presentati, comunque
praticamente mai esplorati totalmente, di film fatti non di cinema ma di mero
verbo copioso, il meccanismo che consiste nel continuo piccolo variare delle
medesime gradazioni di quasi bianco e quasi nero oggi si ripete.
È da quei primi Sorrentino e Garrone che sembra che
l’infelicità, la cupezza dei protagonisti, il quasi assoluto negativismo
debbano essere protagonisti, in una sfrenata corsa speculare rispetto a quello
che era il cazzeggio farsesco precedente fatto di sentimenti e persone.
L’inseguimento forsennato dell’oscuro, della ruvidità dei
sentimenti e della sincerità più pura e dolorosa - l’altra metà del cielo
delle sceneggiature fino a quel momento – che sono riuscite ad essere
nuova forza (grazie appunto a questo respiro datogli) appaiono come già
catturate e conglobate nel nostro fallimentare produrre.
Quale amore è il perfetto riassumersi
di tutta l’incapacità che siamo costretti a subire: ancora una volta
serialità di plastica, questa volta rispetto ad una (finta) serietà che pare
essere completamente obbligata, difatti, se solo in tempi recenti progetti come La sconosciuta
di Tornatore, Arrivederci amore ciao di
Soavi o Romanzo criminale (prima
per Giordana e poi affidato –
thanks god – a Placido) hanno
trovato sbocco produttivo anche abbastanza consistente sul piano economico e
riscontri distributivi soddisfacenti sia qui che all’estero, gli altri
sembrano obbligati a stare a guardare, aspettando finanziamenti che non
arrivano, se non prima di un sonoro calcio nel culo. Perché il primo dubbio che
sorge spontaneo è «Ma che cazzo centra questo film con Alla rivoluzione sulla due cavalli?» e la risposta può solo essere
«Un cazzo, appunto.». perché, se rimangono ancora molto in dubbio le effettive
qualità di Sciarra, sembra quasi che
questo sia film sia stato costretto a farlo, non tanto per la natura della
storia, ma per come essa viene presentata. Come se per tutto il tempo avesse
avuto degli elettrodi nelle zone più sensibili del suo corpo con
all’altro capo un produttore pronto ad attivarli nel caso non avesse
seguito tutti i clichè, gli stilemi, le piccole particolarità assimilabili da
tutte le buone/ottime pellicole recenti, qui riammassati grumosi e anche un
po’ maleodoranti nel cercare di plasmare qualcosa di decente, di
appetibile, di vendibile. Ma anche no.
E così i buoni sentimenti vanno a farsi sfottere e abbiamo un tripudio di
cattiveria ribadito in maniera sfiancante di continuo dal borbottare di Pasotti (qui forse al suo minimo non
televisivo), che rincorre l’espressione più forte della mancanza
d’amore, del perfetto egoismo, dell’asetticità d’umore e
della spietatezza egocentrica senza però mai raggiungerla, vittima del roboare
delle solite sottolineature ormai consumate, fatte di fotografia bluastra
(oltretutto ritoccata inutilmente, digitalmente), di Svizzera e di troppa
perfezione formale. L’eros che non riesce più ad essere autentico, se non
semplicemente animale, la disillusione della vita, l’insonnia, le fin
troppo collimate massime nichiliste da pensiero solitario, il caffè. Il tutto
che sfocia in violenza.
Tutte le colonne portanti di certe idee, brillantemente tornare da qualche
tempo, rincollate assieme, come su un banco di offerte sottocosto di un
supermercato. O un discount. O una bancarella. Imitazioni di Tamagotchi.
Il montaggio si crede ricco di simbolismi e bravo nel suo giocare col tempo, ma
in realtà è una rana che cerca da uscire da un pozzo, invano.
Tutto finisce col sembrare quasi ridicolo, se ci si concentra troppo. E la cosa
migliore è Gianna Nannini sui titoli
di coda.
Ma il problema non è tanto che si tratti di cinema (mala)fotocopia, magari
spinto e poi sorretto da (pur importanti) motivi economici, il fatto è che
neanche ciò non avviene: milioni spesi in film di merda (ok) per poi ritrovarsi
con critiche negative (ok) e incassi miseri, miserissimi. Cecità dei
produttori, pena dei registi che si inchinano al seguire semplicemente talune
correnti, senza riuscire a cavare fuori NULLA di buono.
E tutto ciò è triste.
(19/12/06)