QUESTIONE DI PUNTI DI VISTA
REGIA: Jacques Rivette
SCENEGGIATURA: Jacques Rivette, Pascal Bonitzer, Christine Laurent
CAST: Sergio Castellitto, Jane Birkin, Andrè Marcon
ANNO: 2009
A CURA DI DARIO STEFANONI
VENEZIA 09’: LA VITA E' TUTTO
TRUCCO, NIENT'ALTRO
L'ultimo film del maestro meno celebrato della Nouvelle Vague, insensatamente
distribuito in Italia con un fuorviante titolo da commediola, è una dimessa
ricapitolazione dei temi e delle figure care al cineasta. Con il passo
leggero di una fiaba, vi si racconta di un personaggio quasi picaresco,
Vittorio, che incontra sulla sua strada un circo ambulante, ormai in fase
declinante. Qui, come un viandante mandato da un bonario burattinaio dei
destini umani, proverà a liberare una delle animatrici circensi, Kate, dal
ricordo di una tragedia che la tormenta da quindici anni.
Già dal solo plot ritorna, evidente, l'ossessione principe di Rivette dell'incontro/intreccio tra
vita e rappresentazione, possa essere teatrale (come prova gran parte della
filmografia rivettiana, da L'amour fou
a Chi lo sa?), pittorica (La bella scontrosa),
o, come in questo caso, circense. Gioco di scatole innescato dalla pura
casualità, delicata mise en abîme, 36
vues du Pic Saint-Loup presta
il fianco anche ad interpretazioni smaccatamente metacinematografiche: il
circo è ritratto come arte ormai in declino, con il tendone semivuoto e
desolato al pari delle moderne sale e con uno spettacolo che non diverte più,
incompreso e surclassato (da altri media). Simili richiami fanno capolino
anche dai dialoghi, che sembrano ammiccare alla sua nuda illusione (“Il
clown è tutto trucco, nient'altro”) senza rinnegarne il mistero - e il
rischio- insito nell'immaginario (“Questa pista è il luogo più
pericoloso del mondo, dove tutto è possibile”). Non manca persino una
nascosta lezione di sguardo, quando Vittorio-Castellito osa suggerire al clown di 'valoriser e montrer' il
piatto, un consiglio di regia che pare un omaggio all'evidenza hawksiana
(decantata ai tempi dei Cahiers). 36 vues du Pic Saint-Loup sembra così
il film sul cinema che Rivette, da
sempre restìo alle sirene degli amarcord cinematografici, ha a lungo cercato
di evitare, e che qui, per la prima volta, decide finalmente di tratteggiare,
pur in modo mediato e sottile. Al di fuori di questa limpida metafora, sono
poche le sorprese riservateci dal suo ultimo lungometraggio. La messa in
scena, tutta al servizio degli attori, è come di consueto sobria ed
essenziale, fatta di inquadrature fisse e misurati pianisequenza, mentre i
dialoghi scritti con il fido Pascal
Bonitzer, a parte lampanti eccezioni (“Hai paura?” “No.
Io scappo sempre prima di aver paura”), sembrano fiacchi e svogliati.
Tra le rade soprese di cui sopra, spicca memorabile il gioco luministico a
metà film, con la luce ad oscillare intermittente tra sfondo e figure,
oscurando prima l'uno e poi le altre, come a svelare, nel bel mezzo della
tranquillità dialogica, la natura profondamente teatrale e fittizia del
(supposto) reale. Prassi abituale per il cineasta di Rouen, quella di
raccontare la finzione della vita, anziché di infilare a forza la vita nella
finzione. Ma se anche incipit ed excipit sanno del miglior Rivette, tra gag (il laconico sketch
iniziale) e surreale teatralità (l'uscita di scena corale e ironicamente
meta), il racconto visivo e la sua scrittura sono pesantemente vessate dal
marcato sottotesto psicanalitico, impiegato per giustificare la guarigione di
Kate. Il procedimento per liberarsi dei fantasmi e dei ricordi è lo stesso
abbozzato da Life During Wartime
(anch'esso in concorso a Venezia), ovvero il doppio movimento freudiano del
ricordare per dimenticare (nel film di Solondz
qualcuno confessava: “Ho cercato di dimenticare, e poi ho cercato
di ricordare”), ma in 36 vues du
Pic Saint-Loup l' “operazione” (sic) psicanalitica compiuta
da questo strambo chirurgo degli affetti suona pretestuosa e forzata almeno
quanto il primo monologo di Kate, quasi un malriuscito a parte, affettato e
quasi ridicolo nell'esibizione così goffa del suo dolore. Un limite non
trascurabile, considerato quanto contribuivano al fascino dell'opera rivettiana
la delicata indeterminazione dell'intreccio e la viva libertà dei personaggi
che vengono così ampiamente ridimensionate.
Lontano per respiro e nerbo autoriale anche dal penultimo La Duchessa di Langeais, l'ultimo Rivette
è un dolce ma affaticato ripercorrere i luoghi e i motivi del proprio cinema,
più sottile e leggero che in passato, ma anche più inerte.
(04/10/09)