La prigionia dei corpi: 12 ANNI SCHIAVO di Steve McQueen
REGIA: Steve McQueen
SCENEGGIATURA: Steve McQueen, John Ridley
CAST: Chiwetel Eijofor, Michael Fassbender, Lupita Nyong’o, Paul Dano, Benedict Cumberbatch
ANNO: 2013
Steve McQueen, regista del disfacimento dei corpi, dei corpi straziati e logorati dalle ossessioni, dalle lotte all’ultimo sangue, dalle dipendenze: che siano la fame di ideali da schiantarsi addosso facendo sì che il fisico affamato prenda di quella ribellione la forma, aleando la vita mentre la morte si cosparge sulla carne (in Hunger), o che siano mortiferi automatismi di pelli che si stringono, che sudano, che ansimano sempre e comunque nel dolore, nello sfogo di una ferita, nell’urlo di un’assenza e di una mancanza che ci mangia vivi mentre ci buttiamo su dei surrogati (in Shame).
Steve McQueen, videoartista “metamorfizzato” regista cinematografico– il passo è breve, il terreno è denso – fissa con i primi due film uno sguardo ineludibile, netto e personale, durissimo nella sua lucida fermezza, nel non volersi mai distogliere dall’obiettivo, nel suo scavare nei vuoti – di senso, di misura, di coscienza – e nelle frattaglie della ricerca di morale o della di essa perdizione; nel suo dare un valore precipuo al lavoro di una donna che lentamente, implacabilmente lava i corridoi sporchi e tristi di un carcere, nel suo infettare di rabbia il girone infernale di un rapporto sessuale a tre, dove l’orgasmo è comunque una caduta, un fallimento, un graffiare di disperazione, mai liberazione.
Al suo terzo lavoro, McQueen abbassa il grado di stilettata visiva esteticamente contundente, chiaramente consapevole della propria responsabilità nell’affrontare un dramma storico, una storia vera, nell’essere il primo nero a farlo dietro la macchina da presa. Conscio della necessità, per la regia, di farsi un po’ indietro, di non mettersi davanti al (e prima del) racconto. E dunque asciuga i virtuosismi, la potenza dell’espressione stilistica sovraesposta, e la congela nella presentazione, impietosa ma lucida, annichilente ma ferrea, di ciò che è avvenuto. Di ciò davanti a cui non possiamo sottrarci. Senza compiacimento, come sempre, ma con ancor più secchezza.
Ci sono momenti in cui McQueen, in questo 12 anni schiavo, compone dipinti visivi, pitture in movimento, con le acque marine che gorgogliano come fossero i flutti di Caronte, con il quadro vivente di un uomo impiccato sotto la luce dell’alba e le figure incuranti, impotenti e avvezze all’orrore che gli scivolano attorno. Con lo scrutare tra le fronde, con il silenzio di un preludio quasi straniante, a un passo dall’onirico. Ma nella maggior parte del tempo, l’autore elimina gli orpelli e si limita a guardare fondendo la propria abilità descrittiva e (di)mostratrice, con l’esistere limpidamente terribile di ciò che vediamo, delle prigioni di ciascuno. Del suo feticcio Michael Fassbender, ancora una volta avvinghiato all’ossessione, folle, morbosa, atroce, legato a un suo malato integralismo religioso, col quale governa le sue marionette, i suoi animali, i suoi servi. Della schiantata, vibrante Lupita Nyong’o che nel suo pur breve minutaggio su schermo erompe come un uragano dolente. E soprattutto di Chiwetel Eijofor, uomo come tanti, anche noncurante, che vuole vivere, e per farlo deve sopravvivere.
Ma non c’è – mai – spazio per una melassa emotiva ricattatoria, per l’enfasi della salvezza e della catarsi. Tutto, nel film, è come attonito, scioccato e sconvolto; persino il finale, il cui volume è pari al tono delle scene che lo precedono: senza eclatanti trionfalismi – e riesce a non essere intaccato neppure dalla presenza “aggiustatrice” del semidi(v)o Brad Pitt.
C’è da dire che, dato tale approccio di McQueen, la disperata forza viscerale da pugno nello stomaco che avevano Hunger e Shame qui manca perché a permanere è un raggelamento totale, un impietrito osservare l’accadimento con le mani nei capelli e le dita che tremano di rabbia, davanti all’immobilità cieca dell’orrore. Inoltre, se nelle pellicole precedenti era la sofferenza del particolare a venir sviscerata, qui il tema è universale, cosicché Solomon costituisce più un simbolo – pur umanissimo – che personaggio a tutto tondo. Tutto ciò in ogni caso non scalfisce la bellezza globale di un’opera asciutta e sonante, di cui non ci possiamo (giustamente, per fortuna) liberare.