DEAREST di Peter Chan e MELBOURNE di Nima Javidi: i figli spezzati
REGIA: Peter Chan / Nima Javidi
SCENEGGIATURA: Ji Zhang / -
CAST: Wei Zhao, Bo Huang, Dawei Tong / Roshanak Gerami, Mani Haghighi, Negar Javaherian
NAZIONALITÀ: China, Hong Kong / Iran
ANNO: 2014
Oltre allo sfarfallare delle ali di Birdman e il librarsi in un cielo scostante dello strapazzatissimo Michael Keaton, dopo esser sopravvissuti boccheggianti afasici al profluvio delle 5 ore e mezza vontrieriane mai così umano e disumano, altri due film con i loro sommovimenti propulsivi e il loro elettroencefalogramma impazzito d’amoreodio hanno tentato con il sangue, il sudore, i pugni e i denti di rianimare il corpo flaccido e morto di questa 71esima Venezia forse mai, a nostra memoria, così inanimata, natura così morta, ossa così esposte a noi avvoltoi in cerca di una libbra di carne consumata dagli empi necrofili (Ferrara con Pasolini), dai francesi inermi, da una selezione ingrata. Una mostra vecchia quanto chi fa ancora le battute su Peppa Pig.
Se siamo un po’ resuscitati, tra quelle poltrone, come la ex zombie vegana di Joe Dante, lo dobbiamo anche a due pellicole che la distanza tra le poltrone e lo schermo l’hanno annullata-maciullata con zampate furenti di primi piani munchiani e schiaffi gelidi da una prigione di carta. Uno fuori concorso totale (Peter Chan), l’altro fuori concorso dalla Settimana della Critica (Nima Javidi), entrambi da premio immediato&obbligato, uno altra faccia della medaglia dell’altro, con quei figli oscurati e spezzati, con quella disperazione che esplode e spaccatutto in Dearest e implode e soffoca dall’interno in Melbourne.
Nel primo, un Peter Chan al solito fragoroso come e più dell’amore ferito, strombazzante, estenuato ed estenuante; un figlio viene perduto, rapito, svanisce tra le pieghe buie di una strada e spalanca le fauci di un travaglio distruttivo per i genitori, separati ma rabbiosamente uniti, che si aggrappano a una compagnia della perdita, famiglie abbandonate dal loro ruolo di sangue, ridotti dalla maligna speranza a rincorrere un sacco in braccio a un estraneo in mezzo a un campo, solo perché forse, lì dentro… Ma è il (non)reale ritrovamento del bimbo il vero picco visivo ed emotivo dell’odissea nera di Dearest, con quella sequenza interminabile e insostenibile di fuga – un’altra – in cui i genitori – i paladini, gli eroi, i Nostri – si tramutano in quell’ombra predatrice verso cui poco prima allungavano bramosi le mani, un’unica sequenza ininterrotta in cui il gioco (o meglio la lotta furente) delle parti scivola, sballottola, s’incaglia, i contorni del giusto si slabbrano e sfumano, ed è solo un mucchio selvaggio di dolore quello che vediamo agitarsi e scoppiare in mille frammenti di sangue addosso a noi.
Il film di Chan respira i tempi e le scosse del melò, ma anche ne deraglia, facendo di questa sequenza uno scardinamento delle prospettive e catapultandoci in una seconda parte dove il punto di vista è quello della presunta rapitrice, in realtà, la più misera e disperata di tutti. Una crepitante serie di ondate e pugni allo stomaco, Dearest, politico prima di tutto nei sentimenti. Allo stesso modo attraverso cui Melbourne, con quel titolo così accanitamente lontano e frapposto dalla materia che mostra, è politico in ciò che giace al di sotto, che annichilisce dietro la pelle del buon vicinato. La storia della coppia in partenza e del suo giorno di casualmente non-ordinaria, orrendamente quotidiana follia è una danza macabra di chiusure allontanamenti nascondigli, che sbanda tra il chiudersi fuori e il chiudere dentro, celare e manipolare, socchiudere e serrare porte (verbali e fisiche: la cucina, la stanza da letto, l’ingresso, la soglia che diventa tomba diabolica, ma anche le bugie, le omissioni, i giri di parole); mentre qualcosa di puro e sconosciuto giace dissacrato da una fatale disgrazia, la morte dentro casa come polvere velenosa da nascondere sotto un tappeto di menzogne e di tenebre, una claustrofobia dell’anima che acceca il giudizio e la coscienza, il senso di responsabilità che cola a picco in uno dei finali più geniali (un circolo vizioso pronto a riaccendersi senza soluzione di continuità) visti quest’anno, per un film a tempo reale di tensione silente e agghiacciante, e che, come nei migliori thriller ma inaspettatamente, è quello che era sotto i nostri occhi e dentro le nostre immagini e che pure non riuscivamo a vedere, la chiave di volta; che tuttavia, ormai, non apre nulla, nulla risolve, ma viene subìta, spinge ulteriormente e definitivamente giù nella fossa, sottoterra, dove non possiamo sentirla gridare, quella nostra implacabile, generazionale, genetica colpa.