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Vietata la bellezza: DIVERGENT di Neil Burger

 DIVERGENT

REGIA: Neil Burger
SCENEGGIATURA:  Evan Daugherty, Vanessa Taylor
CAST: Shailene Woodley, Theo James, Kate Winslet, Ashley Judd, Maggie Q, Miles Teller
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2014

Un futuro distopico, una ragazza intrepida (e non), un amore complicato, una società rigida e costrittiva e una rivoluzione che ribolle all’orizzonte. È stato già detto, dobbiamo parzialmente confermarlo: Divergent si presenta come il fratello povero di Hunger Games, quel fratello che arriva secondogenito e s’impegna arditamente per assomigliare al maggiore in personalità e successo, ma che così facendo rischia di bruciare il suo, differente,  talento.
Nello specifico, della saga della “ragazza di fuoco” il primo capitolo di questa nuova riprende la spavalda e intensa protagonista femminile, le ambientazioni e la scenografia del ‘mondo futuro’ (si vedano le sezioni in cui vivono le fazioni, quasi identiche ai distretti, e le sale da combattimento); la struttura della prima parte in prove e allenamenti (che – aridaje – ricordano anche il sottovalutatissimo Ender’s Game), le rivalità interne e il subdolo capo che vigila dall’alto (là l’imperscrutabile Donald Sutherland, qui una piuttosto svogliata Kate Winslet).

Però. Però questo senso di re-visione è, appunto, soprattutto cinematografico, visivo, nelle palesi intenzioni produttive di bissare l’exploit di Hunger Games. Perché in realtà Divergent è, appunto, diverso, divergente dal franchise ‘jenniferlawrenciano’; se non nei toni e in alcune basi iniziali, sicuramente nei temi. E sembra esso stesso rendersene conto, dato che alcune idee originali del romanzo, quando affiorano, sono tutt’altro che carta straccia: basta pensare al sistema di selezione nelle cinque fazioni, che ha sfumature inaspettate (la scelta definitiva non è stabilita dal test, bensì da una decisione individuale, che tuttavia rimane condizionata e soprattutto irreversibile); ci sono poi le conseguenze collaterali del proprio etichettamento (la selezione in-naturale all’interno delle squadre: “Tu hai scelto noi, ora noi scegliamo te”); ed ha un vago fascino il non-luogo dove le peggiori paure si fanno realtà.

Inoltre Divergent ha il merito di non annegare troppo nei fronzoli romantici (come il recente, meyeriano The Host) o negli ammiccamenti adolescenziali (gli ultimi trenta minuti sono praticamente un action), nonostante qualche inevitabile young-adultata, come gli immancabili tatuaggi cool (appena visti in  Shadowhunters, dove almeno avevano uno scopo); il volo notturno un po’ gratuito (in verità, a posteriori è una delle scene migliori del film, proprio perché giocosa, slacciata dalla trama e libera); il bello & scontroso che si scopre poi tormentato & innamorato (tra l’altro mirabile come Theo James abbia la stessa medesima espressione sia quando è in trance ipnotica che quando è in uno stato di normalità). Ed è appunto in queste ridondanze e concessioni al genere che Divergent, puntualmente, cade; nell’imitazione a impronta dei suoi simili si macchia anche delle loro pecche: all’appello sono presenti pure alcune ingenuità (la simulazione ad hoc, il ruolo tratteggiato confusamente della Winslet, personaggi che appaiono e scompaiono – vedi Peter/Miles Teller, peraltro già con la Woodley, ma in panni romantici, nel pessimo The Spectacular Now), il rischio ridicolaggine (il momento, del tutto campato per aria, in cui Tris immagina di reagire alla tentata violenza sessuale dell’amato), ai quali si somma una certa, inedita ambiguità ideologica (gli Eruditi, depositari della cultura e della saggezza, vogliono sopraffare le altre fazioni e sopprimere la natura umana: un discorso stonato, forse illuminato dal romanzo; certo è che non viene gran voglia di leggerlo).

In conclusione, dunque, i problemi, paradossalmente ben inquadrati da una battuta della Winslet (“La bellezza della ribellione – quindi della ricerca della libertà, dello smarcarsi dalle etichette e dalle convenzioni – è una bellezza che non possiamo permetterci”), ebbene i problemi sono sempre gli stessi in questo nuovo arrivato del filone giovane-adulto, ramo che non riesce a trovare un equilibrio tra il primo (giovane) e il secondo (adulto), come bloccato in una zona di transizione che tanto ricorda proprio l’impaccio adolescenziale, di cui coglie le vibrazioni e intercetta il sentire e i bisogni, ma del quale introietta anche – e non riesce a rielaborare – gli impacci, le distrazioni, la confusione identitaria.

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