#5 IL TOCCO DEL PECCATO di Jia Zhangke: tigri, serpenti, fucili e pugnali – transetti di Cina
REGIA: Jia Zhangke
SCENEGGIATURA: Jia Zhangke
CAST: Jiang Wu, Luo Lanshan, Meng Li, Wang Baoqiang, Zhang Jia-yi, Zhao Tao
NAZIONALITÀ: Cina
ANNO: 2013
Nei primi anni ’70, quando Jia Zhangke era un bimbo in una Cina popolare che non era (ancora) quella di Deng, con la dottrina maoista a dettare una rivoluzione culturale fatta anche dell’azzeramento del fantastico narrativo e con esso del genere letterario e cinematografico del wuxia, quello che con tutta probabilità è stato il più grande regista cinese, King Hu, portava sul palcoscenico internazionale, a Cannes, una delle più genuine rappresentazioni della tradizione narrativa autoctona cinese con il principe di tutti i wuxia, passati e presenti: quell’A Touch of Zen fatto di acrobatiche schermaglie, mistiche digressioni e i magnetici occhi di ghiaccio di Hsu Feng. Ee è ancora qui, sulla Croisette, che l’ormai adulto Jia, a più di quarant’anni di distanza, porta il suo omaggio a Hu e al suo capolavoro, donandogli sin dal titolo un sentito omaggio che scambia la dottrina buddhista con il peccato e reinventa gli stilemi del genere con la chiave social-popolare dell’attualità cinese, ormai post-tutto e tutti.
Così, il Tocco del Peccato è un wuxia di giustizia e vendetta, scevro dell’epica di un eroismo positivo, quello che nella tradizione poteva sfiorare il didattico, di miniere giù per le umide regioni dello Yangtze, sino a giungere alle fabbriche del ricco Guangdong, Jia Zhangke ci accompagna per mano in un viaggio che è allo stesso tempo nel suo cinema, di cui ripercorre luoghi e personaggi (usando volti noti dei suoi film precedenti, Zhao Tao in primis, come collanti delle storie che racconta), e nel tessuto sociale di un paese che sembra essersi stabilizzato nel frutto malato di quel che le storie di Jia hanno raccontato per anni: polarizzazione economica, ingiustizia sociale, pochezza culturale, monetizzazione dell’esistenza, vite ingabbiate in situazioni palesemente senza uscita. Il cantore, suo malgrado e sempre in modo apertamente critico, del “risveglio cinese”, con questo film mette a fuoco un’analisi mai così spietata nei confronti di quel modello di sviluppo caotico e spietato che aveva abitato le sue storie precedenti, pure fatte di poetica irrequietezza.
E quello che manca stavolta è proprio questo, a voler essere esigenti, ovvero quel tocco di poesia che aveva sempre sconvolto le sue grigie architetture filmiche, anche se un accenno arriva nella scena che chiude il suo romanzo ad episodi, dove la vicenda del personaggio di Zhao Tao esplode in tutta la sua potenza di ambiguità, tra pazzia e semplice rimozione. In più, una serie infinita di rimandi e (auto)citazioni vertiginose: tigri, serpenti, brani di opera cinese, viaggi in bus, in nave, in moto, amanti traditi, fabbriche cadenti, giovani allo sbando nel mare dell’economia che divora vite, gli schermi pieni delle storie del cinema di Hong Kong, l’eterno scontro tutto cinese tra idealismo e realismo, famiglia e aspirazioni individuali, ponti sul fiume, noia di vivere e disinteresse per la vita, e qualcosa altro ancora. E hai l’umor nero delle geniali scene in un night club con le hostess vestite da soldatesse in mini.
Insomma il piatto è ricco, debordante, e il film tiene a freno la spada per tanto tempo e affonda il colpo solo nel finale, ma tenendo incollati alla sua storia e al suo mondo in quello che qualcuno ha definito come un divertissement; e forse non ha nemmeno torto: un divertissement, o quasi, ma che divertissement, signori.