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L’INGANNO di Sofia Coppola: Le impenitenti ’71-’17, riflessione su due notti brave veramente molto diverse

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REGIA: Sofia Coppola
SCENEGGIATURA: Sofia Coppola
CAST: Colin Farrell, Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning
PRODUZIONE: USA 2017

Anno 1971: Don Siegel
Anno 2017: Sofia Coppola

(Piccola trama: 1864. Terza guerra di secessione. Un visitatore maschio-macho viene preso in salvo in un istituto-convento composto da sei donne. Oggetto incongruo su cui viene proiettata la libidine delle fanciulle, esso finirà per assurgere a corpo di macellazione / vittima sacrificale in virtù del bieco inganno perpetrato nel corso di una notte).

Se il film di Don Siegel venne considerato misogino 46 anni fa, è senz’altro scorretto farlo adesso.
Lungi dal paragone sterile tra la prima e la seconda pellicola, va detto che le intenzionalità da cui muove l’opera della Coppola appaiono perlomeno ambigue, tant’è che dichiarazioni parlano di un “punto di vista femminile” (e lo è senz’altro se ci si dimentica che il p.o.v vuole porsi in alternativa a quello della pellicola di riferimento, o addirittura ridarne dignità), incappando in fraintendimenti decisivi.
L’inganno non è una cogitazione femminista. Né ribalta il fuoco prospettico su queste ragazze in maniera determinante. Non importa. È però senz’altro interessante osservare, da una distanza secolare come appare quella dal The Beguiled originario – invecchiato bene ma non benissimo, come dal primo tralucesse un femminino ancestrale, vestito d’autoaffermazione e modernità (per atteggiamento re-attivo, perfettamente incapsulato nella cinematografia d’oltreoceano), mentre il secondo metta in scena un esempio di donna (le sue donne) estremamente debole e inerme, caduto sotto il giogo di un’ineluttabile impotenza.

Si immagina, da lì, la decisione di eliminare dallo script il personaggio più forte e integerrimo, la schiava decennale della “badessa”, per mettere a tacere qualsivoglia espressione matura di emancipazione (se non di rango, di identità di genere). In questo senso appare logico e giustificato il passaggio al rito sacrificale della riduzione a storpio da parte delle medee, unica azione possibile (per questo contraria al raziocinio e alla legge) di fronte al fallimento della prova d’amore (sessuale, romantico, cerebrale). Per la Coppola è un atto punitivo, questo: un autosabotaggio fra i più spietati, perpetuato nella celebrazione perversa della propria abnegazione. Se il cedimento alla passione, l’evaporazione di un instabile impero di repressione produrrebbero il crollo del supposto cameratismo collegiale e lo scoppio di inasprimenti relazionali (donne che tradiscono donne), questi vengono silenziati in onore di una ben più alta causa: l’eliminazione dell’elemento incongruo, pericoloso, mortifero, come risoluzione castigante e definitiva di un’imperitura tentazione. Il suo depotenziamento, privato il maschile dell’arto, risulta ancora insufficiente a scacciare l’inconscio latente.

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Differente la sfumatura in Siegel, dove è più evidente la necessità della donna di rivendicare se stessa nei confronti del menzognere, del manipolatore che arriverà ad inimicarsi anche la più piccola di loro facendone fuori la tartaruga da compagnia. La loro spietatezza è sì figlia di invidie terrene, ma soprattutto di una sete vendicatrice tutt’altro che passiva e che, sul finale, le trova quasi tutte unite non per debolezza, ma per coesione.
Su questa restaurazione etica, ossequio di una morale ribaltata, sul ristabilimento dell’ordine castrante, verte il focus della Coppola, pronta a ricomporre nell’astuta inquadratura finale (bella ed esplicita) una fotografia di fine ottocento che le vede schierate, ma dietro a un cancello infinito di auto-imposta clausura.
L’uomo è mero elemento, un pezzo di carne da seduzione steso e accecante per la sua stessa natura testosteronica. Ogni gesto che andrà a compiere apparirà incoerente, inspiegabile: bambolotto-motore della vicenda. Non che in Siegel fosse esemplare (ma senz’altro qualificabile, connotato): ambiguo, mosso da pulsioni sessuali contraddittorie e incapace di reprimerle, talmente duale da apparire mistificato e mistificatore, cerebralmente nullo.

Il succitato punto di vista femminile, sbaglia la Coppola, è inevitabilmente il suo, quello morbosamente ricorrente e qui esplicitato nel suo valore doppio (pregio/difetto), di donne sempre, differentemente, rinneganti sé stesse: talvolta perse, talvolta stanche, talvolta – qui – incapaci di vedersi e sentirsi tali. 
In questo sta il merito aggiunto, una declinazione di decadenza e di vuoto (quello suo, contemporaneo ma anche postmoderno: per dire che non è cambiato poi molto) in grado di restituirci un’idea per la quale si avverte sentimento e devozione creativa, specialmente d’intenti, mentre il cinema della Coppola si scontra forse per la prima volta con i suoi limiti più sciocchi, cioè quelli prettamente drammaturgici.

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Al netto del garbo lucente di una fotografia curatissima, di un manipolo funzionale ed efficace di interpreti, scrostando la superficie (quella su cui si dispongono le critiche più acute, arrovellandosi sulla risposta di un assunto importante quale “se la superficie è il contenuto in sé, è esso stesso sufficiente all’economia di un film – di questo film?”) non rimane, più o meno giustamente, niente, il benedetto niente esistenziale votato alla negazione di ogni psicologismo o introversione. Questa volta, Sofia, ha dovuto assoggettarlo a un’orchestrazione narrativa necessitante di solidità, di implicazione causa-effetto che negli eventi, se si ossida, finisce per sfumarli verso un non-sense imperdonabile (è qui non è gioco di vacua superficie, ma presunzione che questa possa bastare – che un concetto possa bastare all’opera stessa). 
Allora, sfortunatamente, il film degrada nel momento in cui comincia l’azione vera, dove le parole e i gesti si giustificano da soli, rincorrendo lo scioglimento del problema (l’urgenza di ribadire quello stesso concetto). Problema che si sgretola dinnanzi alla mancanza di una narrazione fine e complessa, finendo per, paradossalmente, far incespicare il ritmo che ora si vuole concitato, mentre la sincopata lentezza del prima appariva, come sempre, fascinante e doverosa. Ovvero: nell’assottigliamento del materiale, c’è andato di mezzo qualche verbo essere o soggetto di troppo. Finiscono per non bastare gli effetti di luce, l’analogico, gli imbellettamenti e le pulsazioni scarne, programmatiche, dell’immobilità (immobilità di un cinema di cui tanto s’è detto, talvolta aggrovigliandosi a critiche deliranti che gli han fatto più del male che del bene).

Le donne ingabbiate e impotenti non hanno né colpa né ragione, si può soffrire per la loro carcerazione, assumendo, come pilotati, le loro sembianze e i loro moti, pur non capendone le ragioni effettive (potrebbe non essercene bisogno), ma limitando gravemente e globalmente il raggio di possibilità semantiche dell’opera. Che si guarda con gran piacere estetico, carpendone le vibrazioni di significato, eppure soffrendone l’insufficienza di sguardo.
E allora sì, si rimpiange il corvo allegorico di Siegel, lì incastrato e poi impiccato all’interno del tempio, e insieme ad esso la pregnanza onnicomprensiva di un’opera estremamente chiaroscurale. 

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