JUSTE LA FIN DU MONDE di Xavier Dolan: doveva accadere
REGIA: Xavier Dolan
SCENEGGIATURA: Xavier Dolan, Jean-Luc Lagarce (piéce teatrale)
CAST: Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux
PAESE: Canada, Francia
Doveva accadere. Dove accadere che il blabla enfant prodige del cinema, capace di bucare trasversalmente i palati delle platee e delle stanzette di tutto il mondo “semplicemente” con la sua regia (quindi con la sua stessa idea di Cinema), giungesse ad una battuta d’arresto, ad un passo laterale, ad una sosta che suggerisce una quantità infinitamente minore di sigarette rispetto al solito. Dai primi film fino ai volteggi stilistici di Mommy abbiamo assistito ad un crescendo dai caratteri quasi inverosimili, ad un continuo impulso a sperimentare la forma più dura e diretta in un modo o nell’altro, capace di imporci come colonna portante dell’immagine ciò che per troppi altri registi è sempre risultato secondario.
Se per sei o sette anni Dolan ci ha ricordato che il cinema è una questione di immagine (un linguaggio duro, isterico, urlato e cristallizzato formalmente nel suo caso), ritrovarci davanti ad un sesto cortometraggio che sceglie sintagmi accomodanti può essere spiazzante. I dolanismi ci sono tutti, ma non crediamo nella versione per la quale il riapplicarsi a se stessi sia qualcosa di valevole di per sé, soprattutto se l’eco e l’alone di tutto ciò che lo precede appaiono come tali e nulla più. Non siamo davanti ad un Dolan più soft, ma ad un dolan visto da lontano e forse nemmeno dallo stesso Dolan: nel suo essere solo riconoscibile sta la sua mancanza di identità. Non si tratta di un’infatuazione scemata, dove quei momenti e quei primi piani esistevano e adesso non esistono più pur rimanendo “quelli”: in Juste la fin du monde i primi piani sono altri, non creano castelli con la musica, col montaggio, con la devastazione dei personaggi, ma lunghe e sconfinate pianure di dialoghi scorciabili, di idee ferme allo stato sensoriale rispettoso del testo originale e dei contenuti.
Come se davanti al mixer dei suoi stili Dolan avesse abbassato tutti i livelli per avere qualcosa di più leggero: ma ecco che i legami si assottigliano, le tensioni si distendono, la suspense diventa semplice attesa, l’impatto visivo/sonoro diventa un intermezzo continuo, le lame diventano tondeggianti da non tagliare né lasciare segni. Il cinema louder di Dolan si fa semplicemente ad alto volume, una suite che non decide mai di partire di cui sentiamo più il fruscio di fondo che la definizione del silenzio, lasciando colmo a metà tutto il potenziale che inevitabilmente dispone con le sue impostazioni.
Ci lasciano man mano che avanziamo i personaggi – quasi tutti (troppi? Tanto da adagiarsi sulla loro semplice compresenza?) volti noti del cinema francese – come se non fossero mai giunti, come se appartenessero all’ennesimo film sulle reunion familiari, sovrastati da un simbolismo finale che non fa altro che confermare il pallore di ciò che lo precede (un simbolismo che avrebbe dovuto far esplodere l’intero film, o risucchiarlo in una sola inquadratura, facendo esalare l’ultimo respiro alla tensiona o facendola tuffare libera in aria, ma che invece rimane solo come cornice alla soglia del kitsch). Dolan non si muove. Cosa basta di Juste la fin du monde? Il sapere che prima o poi doveva accadere.