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Troppo pop e poco porno: LOVELACE di Robert Epstein e Jeffrey Friedman

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REGIA: Robert Epstein e Jeffrey Friedman
SCENEGGIATURA: Andy Bellin
CAST: Amanda Seyfried, Peter Sarsgaard, Sharon Stone, Adam Brody
ANNO: 2013

E’ più importante la rivoluzione o il rivoluzionario? Merita maggiore considerazione il movimento (sociale, politico, culturale) che ne consegue o l’icona che lo rappresenta e contribuisce, seppur involontariamente, a stravolgere lo status quo?
Per Robert Epstein e Jeffrey Friedman la centralità spetta di diritto all’immagine individuale, (tutto) il resto non è degno di approfondimento.

Non è tanto Lovelace ad essere un film sbagliato, quanto la progettualità della sua idea: superficiale, di parte, innocua, elementare. Raccontare Linda Susan Boreman bypassando la golden age del cinema a luci rosse americano è un errore imperdonabile; più per presunzione che per ignoranza. Non è concepibile, né ammissibile, che uno dei momenti moralmente più trasgressivi, liberatori e di rottura appartenenti alla “letteratura” (contro)culturale del secolo scorso, venga sacrificato al fine di esaltare esclusivamente il profilo intimo e commovente del suo volto più noto; che in Lovelace diviene elemento oltremodo accentratore, impossessandosi dei riflettori così da lasciare ogni figura che sia altra al buio. Gerard Damiano compreso, regista invero tagliente e acuto, che sulla falsa riga di un Russ Meyer sapeva utilizzare il sesso tanto come allegoria di emancipazione femminile (Gola Profonda) quanto come amara metafora della condizione umana e relazionale (Odissea sessuale). 

Epstein e Friedman non sono interessati a Damiano o al collasso del giogo moralista e conservatore, che fino all’uscita di Gola Profonda aveva recluso l’atto sessuale – sia attivo che passivo – a passatempo sporco e immorale; Epstein e Friedman non rintracciano nel cinema pornografico quello slancio pioneristico che contribuì all’evoluzione tecnologica e d’ambiente della settima arte. Epstein e Friedman non hanno visto Boogie Nights preferendo la biografia di Linda Susan Boreman, lettura che anestetizza Lovelace rendendolo approssimativo e generico, fino a confinare la figura della sua protagonista in un quadro decisamente più grande di lei; che purtroppo non ci viene mostrato. Un vuoto di profondità amplificato a dovere da una visione stilistica interessata a replicare il riflesso plastificato delle copertine vintage: lontano parente dell’astratto, provocatorio e decisamente più preparato Urlo, Lovelace rivela l’aspetto del compitino televisivo attirato esclusivamente dalla dramma domestico, invaghito della lacrima facile, attratto dalla denuncia nei confronti di un mondo che dei divieti si è sempre fatto beffe; per diventare fenomeno di costume popolare, tendenza alternativa da seguire.

Lovelace si può ascrivere alla categoria “fisiologici buchi nell’acqua del Sundance”, che dopo The Runaways fa da trampolino promozionale ad un’altra pellicola che della materia trattata conosce solo il costume d’epoca, salvo ignorare cosa di veramente prezioso è custodito nella scatola dei ricordi.

Amanda Seyfried sta a Linda Lovelace e al cinema hard come Dakota Fanning stava a Cherie Currie e agli albori dell’identità riot grrrl. Non è sufficiente una fotografia “old fashioned” e qualche vestito retrò per raccontare come si dovrebbe una storia che non può, e non deve, esaurirsi nel dramma di una coppia. Non basta la parabola personale di Linda Susan Boreman per sviscerare l’intero significato e peso culturale del fenomeno Gola Profonda.
Perché se così fosse, sarebbe sufficiente imprigionare nell’esclusiva figura di Lilli Carati il momento massimo del porno italiano d’esportazione, al fine di rappresentarlo nella sua interezza. Qualora l’approssimazione di Lovelace diventasse regola, tanto varrebbe sdoganare, e incensare, maldestri tentativi di celebrazione quali Moana; preferendo così al cinema la tv del dolore: tipologie d’intrattenimento per fortuna inconciliabili.

Antitesi quest’ultima, che Robert Epstein e Jeffrey Friedman hanno deciso colpevolmente di ignorare.

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