Under the skin with diamond: LUCY di Luc Besson
REGIA: Luc Besson
SCENEGGIATURA: Luc Besson
CAST: Scarlett Johansson, Morgan Freeman, Min-sik Choi
NAZIONALITÀ: Francia
ANNO: 2014
E’ curioso che, quest’anno, due dei più originali e suggestivi film sulla natura umana condividano, aldilà del tema centrale, la medesima attrice – l’intrigante Scarlett Johansson – in quelle che con tutta probabilità rappresentano le sue interpretazioni migliori. Il primo è l’inquietante e glaciale Under the Skin (Johnatan Glazer, 2013), mentre il secondo è lo psichedelico ed energico Lucy (Luc Besson, 2014), due pellicole inversamente proporzionali, opposte e complementari nei colori, nelle atmosfere, nel rimo, nelle ambientazioni, nel genere, ma anche e soprattutto nelle sembianze della protagonista. La Scarlett di Glazer è mora e algida, dalla pelle d’alabastro, (f)rigida e imperturbabile, mentre quella di Besson è bionda e adrenalinica, perennemente madida di sudore, ammiccante e irrequieta. Allo stesso modo, interiormente, se la prima rappresenta l’esempio più efficace di inumanità, un’aliena insensibile e brutale, la seconda manifesta un’umanità fuori dal comune, eccessiva e ingestibile. Per ruolo e per dovere storico entrambe sono chiamate a compiere una missione e, nel farlo, entrambe si avvicinano pericolosamente al loro opposto – o se vogliamo al loro doppelgänger cinematografico. L’aliena, nel tentativo di distruggere gli esseri umani, ne subisce il fascino, tanto da umanizzarsi e voler entrare in contatto con loro. Lucy, invece, decisa a tramandare il suo sapere agli uomini per favorirne il progresso, finisce per disumanizzarsi completamente. Ancora. Sotto l’involucro della Scarlett aliena si nasconde una pelle simile al latex, brillante e nera come lo spazio profondo, ovvero l’identità cosmica, la stessa che sembra rivestire Lucy al raggiungimento del 100% della sua trasformazione.
Un caso? Probabilmente sì, ma dal grande e sbalorditivo richiamo ipertestuale.
Ma ciò che di davvero interessante mostrano in comune questi due film è l’approccio all’argomento che vogliono trattare, l’umanità, vista da due insoliti punti di vista, entrambi esterni e distanti e, per questo, complici di rendere i due film estremamente sfocati e indefiniti. Se Under the Skin offre uno sguardo contemplativo e dettagliato, dedito all’osservazione meticolosa e sperimentale di ciò che non conosce, Lucy, al contrario, scorre veloce con lo sguardo un materiale che conosce fin troppo bene e ne seleziona solo alcuni incisivi momenti. Per questa ragione i film posseggono due ritmi narrativi completamente diversi, rappresentando l’esatta simulazione dello sguardo delle protagoniste che, a velocità differite, trasmettono un senso di straniamento: uno inquietante e scoraggiante, l’altro affascinante e carico di speranza, generando tuttavia un simile effetto nello spettatore: una sorta di avversione. Sia Under the Skin che Lucy sono film difficili da recepire e accettare per quello che sono, ossia delle indagini che fanno della loro missione comunicativa anche una ragione di forma. Se Under the Skin, lesinando informazioni e calcando la mano sull’impianto immaginifico, appare ostico e inafferrabile, Lucy sembra ridicolo nel trascurare deliberatamente la coerenza non solo scientifica, ma anche logico-narrativa della vicenda. Eppure, entrambi i film si impegnano e si prestano per far sì che gli eventi acquistino una dimensione surreale e inafferrabile, proprio nell’ottica delle due protagoniste, interne al racconto ma mosse da pulsioni del tutto incomprensibili, pulsioni che sullo schermo diventano deviazioni scopiche. Non a caso i due film sono ricchi di oggettive irreali e licenze poetico-narrative, che ne disorientano in qualche modo la visione. Eppure l’approccio non solo è quello giusto, ma si rivela anche incredibilmente efficace.
Che cosa ne sarebbe stato di Lucy se, a voler accontentare tutti, avesse intrapreso la strada della scientificità e della coerenza, se si fosse insomma preso davvero sul serio? Ne sarebbe uscito un film poco avvincente, ordinario, pieno zeppo di tempi morti e fastidiosamente presuntuoso, sarebbe stato Trascendence (Wally Pfister, 2014). Lucy sceglie di non compiacersi di interminabili spiegoni o geniali considerazioni, ma preferisce dilettarsi nell’esposizione di lapidarie ipotesi e nell’illustrare un elenco di possibili effetti e conseguenze, che si avvicendano uno dietro l’altro facendo procedere il film a un ritmo impressionante. Nell’affrontare quelle ipotesi, inoltre, non rinuncia a metterne in dubbio la plausibilità in maniera incredibilmente esilarante, ironizzando sulle gesta e i discorsi dei personaggi, Morgan Freeman su tutti.
Il film, forte della sua indole ludica ma servizio di una riflessione per nulla banale, finisce per rappresentare una versione aggiornata e antiseriale del superhero movie, in cui l’eroe è una figura una tantum dall’identità ininfluente, ma la cui capacità consiste nel rivelare, con la sua dipartita, tutte le preziose informazioni di cui è custode. Luc Besson, con il suo Lucy, dimostra di possedere non solo grande dimestichezza con la materia cinematografica, che plasma e riadatta a seconda delle circostanze spaziotemporali – dopotutto questa è l’ennesima eroina bessoniana che si scontra con le assurdità e le ingiustizie del suo tempo – ma anche di possedere il giusto approccio narrativo, forte della considerazione dei testi e dei riferimenti contestuali più interessanti e attuali.
Se l’avete visto e non vi è piaciuto, o se, dopo averlo visto, non vi convincerà, significa che forse “non siete ancora pronti per questo, ma ai vostri figli piacerà”.