Aspettando Venezia 74: NEBRASKA di Alexander Payne
REGIA: Alexander Payne
SCENEGGIATURA: Bob Nelson
CAST: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013
In attesa di vedere la sua ultima fatica Downsizing aprire la Mostra numero 74 di quest’anno, recuperiamo la precedente pellicola di Alexander Payne, Nebraska.
QUI LA RECENSIONE DI FIABA DI MARTINO ALL’EPOCA DELL’USCITA
Sono passati oramai quasi quattro anni da questo piccolo film in bianco e nero, l’unico non scritto da lui stesso tra quelli diretti da Payne. Questo fattore molto probabilmente ha fatto sì che potesse dedicarsi principalmente alla forma, intesa in senso stretto, primo a dedicarsi ai personaggi e alle parole, primo spettatore, primo inventore dell’immagine.
Nebraska si inscrive strettamente in un genere – o macro(per quantità di film prodotti)/micro(per mezzi solitamente impiegati) area – tutto americano e tutto provinciale, quello del maledetto indie. Non che Payne si sia mai distaccato troppo dai meccanismi delle tribolazioni familiari, dei paeselli natii, dei conti da regolare tra consanguinei e compaesani, ma questa volta sembra proprio aver deciso di seguire l’invisibile bibbia del genre nel modo più stretto e ciecamente fedele.
Ed è tutto uno scontrarsi di attrazioni e tensioni, ché ci troviamo di fronte alla fossilizzazione delle tematiche e all’adagio dello storytelling, eppure qualcosa tiene attaccati alla vicenda. Vomitiamo ma vogliamo un’altra scena. Cittadine da una manciata di abitanti, vecchi alcolizzati e padri rincoglioniti, figli falliti e prospettive/sogni ben al di sotto dell’auspicio di una vita occidentale: re-impariamo che la provincia americana è disperata? C’è bisogno di ripeterlo? Dobbiamo ancora ascoltare l’ennesima storia di un vecchio ed irrisoluto burbero che, di base, non meriterebbe l’attenzione di nessuno? Uno schema che era già vecchio all’epoca dell’uscita, e che oggi è ancora qui, inespugnato, identico, irreprensibile.
C’è forse una caratura universale in tutto ciò o siamo solamente predisposti ad accettarlo così come accettiamo ancora il due-camere-e-cucina nostrano? Payne non rilegge, al massimo ha un’ottima dizione: nel monocromatico, dimostra di saper tenere ferma la macchina da presa, di poter osservare il piccolo e tirarne fuori del buono, che sia un dettaglio, un’atmosfera, un’angolatura, una brillante miseria.
Payne ha sempre fatto di una semplicità ordinata e talvolta quadrata, un rigore classico che però spesso stava stretto alle sue stesse sceneggiature, perché è lui il primo a lanciare il sasso-sogno e a nascondere/nascondersi dietro la mano. Larry insegue un milione di dollari inesistente: vietato evadere, è nel microcosmo che va trovate la soluzione o l’accettazione (a seconda di come le si voglia intendere). Il rapporto tra parola teorica e parola ripresa non traballa,non stride: se c’è una cosa che possiamo e dobbiamo apprezzare di Payne, soprattutto con questo film, è la capacità di misura.
Dell’amarezza non si può fare a meno, nel cinema dell’empatia. La lente di Payne è minuziosa. Talvolta asfissiante, ma mai ridondante. E, nella categoria, non è una cosa scontata.
QUI LA RECENSIONE DI FIABA DI MARTINO ALL’EPOCA DELL’USCITA