Heaven knows what Pasolini is: PASOLINI di Abel Ferrara
REGIA: Abel Ferrara
SCENEGGIATURA: Abel Ferrara e Maurizio Braucci
CAST: Willem Dafoe, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio
NAZIONALITÀ: Italia, Belgio, Francia
ANNO: 2014
Ad Abel Ferrara non frega un cazzo. A partire dalle dichiarazioni d’intenti, quando alla domanda se “si aspetta delle critiche da parte degli italiani” al suo film risponde, appunto, che non gliene frega nulla, che non vuole tradire alcuna aspettativa se non la sua. E questo è forse l’approccio più spietato e metodologicamente funzionale che un regista possa assumere, se non fosse che il soggetto da trattare è tesoro (inter)nazionale già di per sé incompreso e bistrattato e infangato, e che svilupparlo senza guanti di velluto pare, senz’altro, imprudente e, in primo luogo, disonesto.
Pasolini di Ferrara, che esce in una Venezia festivaliera già di per sé imbottitasi di titoli brutti, si macchia per l’appunto di disonestà intellettuale quando dipinge una non-lettura di colui che è forse stato l’ultimo grande intellettuale italiano degli ultimi cinquant’anni, che alla sua morte lascia un vuoto non eclissabile e un’ignoranza nei confronti della sua vita che rende sconcertati e amareggiati i pochi, fedelissimi studiosi.
È disonestà intellettuale, in primo luogo, perché Ferrara (spesso, a ragione) presuntuosissimo cineasta, non si assume la responsabilità e il gigantesco peso della sua scelta, decidendo a-criticamente di dimenticarsi di tutto: della quasi scontata anteprima mondiale veneziana in un paese che probabilmente, in maniera del tutto inconscia, ancora deve risollevarsi da una tragica e prematura mancanza, della natura fortemente ancestrale che lega Pasolini alla natura e alla religione, della pedagogia dell’orrore, del linguaggio della realtà, dell’arcaismo che si enuncia nel legame con il dialetto friulano, della mitizzazione del sottoproletariato come soggetto di ogni suo lavoro cinematografico, del legame morboso/edipico con la madre, della sofferenza di uomo diverso intrappolato in un guscio che lo divora e che neppure lo comprende. Il film di Ferrara è, di ciò, un (poco) lungo, inutile reset. Egli dichiara, con stimabile consapevolezza, che il “valore di Pasolini è riconosciuto molto di più al di fuori dall’Italia”, e gira una pellicola che non è rivolta né ai severi amanti dell’artista, che non vi ritrovano stralci di poetica né dettagli autobiografici, né al popolino, che di Pasolini conosce poco e niente (se non la vaga cognizione della sua morte – che, plausi, è l’unico momento veramente dispiegato con realismo, anche se non vi è traccia visiva del rapporto sessuale). In questo, di coraggioso non c’è nulla, ché la davvero ignobile pudicizia con la quale viene assemblata la sua identità omosessuale di certo male si accorda all’ostentato e triviale uso che delle parole faceva Pier Paolo e della sua eretica vocazione pedagogica.
È un film legato, che produce cortocircuito, che continuamente deraglia e va a finire contro i propri evidenti e imbarazzanti limiti: levigate immagini di transizione di una Roma neoclassica del tutto incoerenti e degne della miglior fiction, la cui ragione diegetica non ci è pervenuta – legame viscerale del soggetto con la capitale o un montaggio semi-connotativo per tradurci in immagine la bellezza nostalgica e imperiale dello scrittore? –, nulla è veramente potente, incisivo, nevralgico, e Ferrara, qui, è sempre Ferrara, ma è morbido, evidentemente teme e si trattiene, quasi viene sovrastato dalla sua imponenza e, comodamente, preferisce abbozzare servendosi della descrizione (eccessivamente letargica) dell’inutile ultima giornata pasoliniana (e questa è, forse, l’unica nota davvero originale nell’incontro del regista con il suo materiale) per affrontare attivamente i suoi demoni e tradurceli in composizione emozionale e visiva.
E va bene (va benissimo) escludere il doc/ biopic come stantia ricostruzione di un’esistenza, e al bando i sovraesposti flashback e affanculo lo schifoso passato da cui emanciparsi per guardare a un futuro che è quell’inferno da lui già preconizzato trent’anni prima, e al rogo i dialoghi pregnanti in virtù del non-sense, degli spaghetti e della banda di politici corrotti e ipocriti che fanno capolino (ma perché?) a inizio opera; Ferrara cancella tutto, lascia solo imagines di umani, stralci di interviste che riducono a sotto zero e banalizzano la portata intellettuale fracassante e ciclonica di un uomo (a parlare, nel flyer, l’aforisma “scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati è un piacere”, che provoca delirium tremens prolungati), esalta il tri-linguismo italo-anglo-francesce storicamente inaccettabile che viene imposto agli attori (Willem Dafoe si impegna solo in una battuta dove pronuncia, malissimo, “macchina” e “spaghetti”) come cifra stilistica senza capo né coda – come la madre, interpretata dalla bravissima e dilapidata Adriana Asti, del cui affetto morboso e simbiotico non si ha visiva manifestazione. E va bene, perché in un’unica, sola giornata, inutile come può soltanto essere l’ultima di un’esistenza, questi meccanismi poco possono emergere, e in virtù di una sorta di realismo (invischiato in una regia, invece, per lo più di surrealtà, tra inserti diegetici che staccano in tempi e luoghi diversi, se non immaginati), “Pasolini” nemmeno si costruisce di silenzi o di vuoti esteticamente emozionali ed emozionanti, o di inquadrature pregne di simbolico valore: niente, solo superficie, e neppure volutamente patinata, o godibile. Ferrara, come se non bastasse, chiama al rapporto cani e porci: l’identico Willem Dafoe potenzialmente eccezionale ma castrato dai poveri dialoghi ed evidentemente diretto in modo approssimativo; Ninetto Davoli nella parte di Eduardo De Filippo in Porno-Teo-Kolossal, progetto mai realizzato e di cui Ferrara superbamente inventa alcune scene e dirige, male, alcune altre (ma tanto Pasolini di tecnica della mdp, poco ne sapeva), ove Davoli fa la sua comparsa da pagliaccetto incurante assieme a un capitato per caso Riccardo Scamarcio, imbruttito nella parte di Ninetto, mentre lo spettatore profano lo osserva senza capire né chi è, né che ruolo abbia avuto nella vita dello scrittore – la, seppur buona, scena della cena all’osteria è senz’altro uno spaccato autentico dei pasti che Pasolini, Davoli e la moglie usavano avere, ma rimane un accenno vuoto al legame che lo scrittore aveva col ragazzetto; anzi, di quel legame non vi è rimasto alcun segno. Si dimentica, invece, il cammeo di Mastandrea, sulla cui funzionalità filmica ancora permangono le nostre meningi. Rimane il Pasolini rotto in culo, l’unico di cui l’italiano medio abbia coscienza, la cui trasposizione quasi virtuosa lascia sconcertati e imbalsamati, soprattutto di fronte al pompino più fake di sempre, che è tragico preludio, invece, del suo ineluttabile destino; un pompino concepibile in qualsiasi altro lavoro politically correct, ma di certo non in un’opera che s’intitola Pasolini e diretta da uno come Ferrara, il cui spirito anarchico e sregolato altrove aveva raggiunto più che discreti risultati, e che qui si perde in una regia stanca e incerta, quasi dogmatica, con bruttissime dissolvenze su dissolvenze che si dissolvono nella vacuità generale. E, allora, l’incuranza nei confronti delle critiche è ammirabile, a un certo livello anche l’incuranza pedissequa nei confronti dell’essenza propria del soggetto, ove l’amore per lo stesso si intravede ma giace lacunoso tra un’inquadratura e l’altra; ancora di più sia premiabile lo sforzo di un non andamento cronologico e di un approccio più minimale e sotterraneo, di riduzione del genio a uomo comune, di compassionevole intento registico, e così via. Ma ci si accontenta, e gli ignoranti non comprendono, i fan gemono e scalpitano in poltrona, mentre la press, timida, applaude, forse inebetita da un lavoro sicuramente disorientante. L’intento è fare un film di vuoti su un tutto inestricabile e inesplicabile (e per fare ciò si serve di un onirismo salva-tutto), eppure si ha solo l’impressione che il risultato sia un film fatto di vuoto sul vuoto. Un film che neppure a Pasolini stesso sarebbe piaciuto. E ad Abel Ferrara continuerebbe, giustamente, e nonostante tutto, a non fregare un cazzo.