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Cent’anime di solitudine (Melancholia): STILL LIFE di Uberto Pasolini (Miglior Regia Orizzonti Venezia 2013)

still life venezia 2013 (3)

REGIA: Uberto Pasolini
SCENEGGIATURA: Uberto Pasolini
CAST: Eddie Marsan, Joanne Froggatt, Karen Drury, Andrew Buchan, Michael Elkin
NAZIONALITÀ: UK, Italia
ANNO: 2013

Una natura morta, un’esistenza ferma, trattenuta: è quella di John May, ometto chapliniano solo nel mesto portamento, comunque (auto)privato della buffoneria clownesca, di cui rimane solo la traspirante melanconia. Il suo è un lavoro impiegatizio, curioso nella descrizione (ricostruisce le tracce della vita di morti recenti e ignoti e ne scrive il discorso funebre), in realtà certosino, intenso, a cui si applica come se ne andasse della sua, di vita, che con tale lavoro coincide, mai davvero penetrata, mai toccata con mano, o quantomeno è ciò che il suo presente bloccato ci suggerisce.

E così John May, anonimo e trasparente fin da nome e cognome, apre e chiude regolarmente spiragli di disgrazia, tra le mani tasselli scoordinati e accartocciati di puzzle sconosciuti e indifferenti (almeno fino a quando non gli vengono assegnati), brandelli di vite ormai dissolte che come in un’investigazione holmesiana post-mortem deve riuscire a riassemblare. Senza alcun ritorno affettivo che non sia intimo e segreto (quando i deceduti vanno a riempire le caselle sgombre del suo album di famiglia), senza alcuna soddisfazione in quella processione funeraria di un trapassato rimasto senza nessuno al mondo, senza alcun orecchio ad ascoltare e apprezzare un elogio mortuario costruito compitamente su misura ma unicamente per l’aria vuota di una chiesa senza astanti che non siano la lapide e i becchini. Una routine di cui ci basta un esempio microscopico per avere una istantanea fulminea, panoramica sconfortante di un’esistenza solitaria passata a raccogliere suoi solitari simili. Poi un giorno, con la medesima blanda apatia con cui si dispiega lineare il suo cinereo quotidiano, il capo fa tagli al personale e John May finisce nel mucchio. L’ultimo incarico diventa anche il suo ultimo desiderio e via via una missione, un dovere, uno scopo finale, un imperativo morale e umano. Una faccenda personale durante, una questione di cuore poi.

È in uno stato di grazia delicatissimo Pasolini Uberto, e intesse un film dal tocco lieve e bilanciato, che tocca le corde giuste, che infrange le remore pregiudiziali e deterge le ultime delusioni cinematografiche. In stato di grazia è pure Eddie Marsan, inscindibile dal personaggio, presenza umile e impalpabile ma emozionalmente tangibile, e anche lui come John continuamente meramente dignitosamente di contorno, lungo i bordi secondari del campo visivo dei leading, ma insostituibile.

Lo si ama, Marsan e la sua figurina malincuorica da cinema muto; si ama l’eleganza triste e minimale di questo Still Life, si ama la sua compostezza e il suo dolce naufragare nell’amarezza; e si ama perfino un finale che, sancendo insindacabilmente la solitudine come ineludibile stato esistenziale, come condizione umana universale, arpiona smaccatamente le lacrime dagli occhi e appanna la vista. Ma va bene così: e il resto appartiene ai fantasmi.

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