#2 THE RAID 2: BERENDAL di Gareth Evans: la grande azzuffata
REGIA: Gareth Evans
SCENEGGIATURA: Gareth Evans
CAST: Iko Uwais, Arifin Putra, Alex Abbad, Oka Antara, Yayan Ruhian, Donny Alamsyah
NAZIONALITÀ: Indonesia, Usa
ANNO: 2014
The raid 2 è l’apoteosi. In tutti i sensi e significati che potete immaginare. Non è solo il sequel che raddoppia e nel migliore dei casi supera l’originale: è il sequel che lo aumenta, lo moltiplica, lo potenzia, lo stratifica, lo spara al massimo e su tutti i livelli.
È l’apoteosi della forma action durissima e purissima, ovviamente, delle botte da orbi e da folli, spaccaossa e spaccatutto, di costruzione scenica, coreografica e spaziale micidiale.
È l’apoteosi dell’iconicità dei caratteri: si passa da quelli più classici come il boss e il figliol poco prodigo, l’infiltrato e il corruttore, a quelli che bucano (con armi diversificate) lo schermo reclamando uno spinoff tutto per sé dal momento che entrano in scena – e se la divorano -, vedi alla voce Hammer Girl e Baseball Bat Man, già personaggi cultissimi.
È l’apoteosi della regia di Gareth Evans, uno che state certi Hollywood agguanterà in meno di uno schiocco di dita, che eleva e rende supremi gli spazi, vi si allea, comunque e quantunque siano: stretti e ampi, lunghi e corti, sfruttandoli all’ennesima (onni)potenza, facendo di una metropolitana come di una cucina (!!) ring di esplosiva perfezione, lasciando mangiare la polvere con nonchalanche a qualsiasi altro filmmaker d’azione (e non!) del giro, e dando filo da torcere persino a chi pare evocare (vedi Nicolas Winding Refn: i 5 minuti di abbagliante e inquieta eleganza rosso e oro nella sala in cui Uco viene irretito son meglio di tutte le due ore e passa di Solo Dio perdona).
È l’apoteosi anche dell’eccesso, dell’opera action tonitruante extralarge, “troppo che non stroppia”, con le sue due ore e mezza che si bevono tutte in un sorso, rimanendo alla fine attoniti e un po’ disorientati, ma per nulla saturi e anzi, chiedendone ancora e ancora.
È perfino l’apoteosi, in quei punti brevi ma intensi e soprattutto inaspettati ad esso dedicati, del dramma familiare: dal protagonista Rama che al telefono si commuove ascoltando i vagiti del figlioletto ignaro, alla lenta discesa negli inferi del senso di colpa da parte di Uco, dopo il gesto senza ritorno che compie nei confronti del padre, fino ad arrivare allo straziante segmento del barbone-killer Prakoso, il cui epilogo tra la neve brucia di struggimento.
Insomma, possiamo dirlo, è ufficiale: il (compianto, compiantissimo) re e padre del cinema d’azione thailandese (ma non solo) Panna Rittikrai ha trovato il suo erede: e se le premesse sono queste, potremmo presto dire che l’allievo ha superato il maestro.