visioni

THE VVITCH di Robert Eggers: Tonight I choose the beast

the vvitch

REGIA: Robert Eggers
SCENEGGIATURA: Robert Eggers
CAST: anya Taylor-Joy, Ralph Ineson, Kate Dickie
ANNO: 2015

Lungi dall’ingannare con il suo titolo banale per una catalogazione horror dell’opera, The VVitch ha sicuramente tutt’altre intenzioni che ricercare l’effetto shock dietro a porte che si aprono da sole, orologi a pendolo e ombre a cui piace apparire di soppiatto dietro al disgraziato di turno, intento a investigare la propria maison senza ausilio di elettricità. Cliché a parte, la cui generalizzazione di certo non dipende dal loro essere marca di sottogenere, bensì dal loro pigro utilizzo,  l’esordio in cabina di regia di tale Robert Eggers, che presentava una nuova storia inglese al Sundance 2015, e che in Italia arriva il 18 agosto dopo un calvario di mesi, è un lavoro a suo modo ambizioso, costante e umbratile, ribaltandone in totalità di positivo le accezioni dei tre termini: ambizioso per la ricerca impiegata sul fronte documentario e la minuziosità scenografica (consultazione di testimonianze e manoscritti originali), costante e umbratile per la pacatezza e la stasi con la quale mette in scena una storia di ordinaria violenza. La collocazione storica nel XVIII° sec. parrebbe del tutto ininfluente (o noi, almeno, scegliamo che lo sia), nel momento in cui l’esperimento psico-sociale di isolare un nucleo familiare (ma sarebbe più aderente “esiliare” per incompatibilità di fede) dal suo villaggio di appartenenza, all’interno di una terra straniera che il loro popolo si propone di colonizzare, è un pretesto (la premessa alfa) per ponderare sugli effetti stranianti e psicotici di un microcosmo de-vertebrato, eviscerato prima dei loro simili e connazionali, misure di rispecchiamento sociale, poi di verifiche d’esistenza del proprio Dio (che ora è lupo, è strega seducente, caprone nero e, infine, astrazione dalla voce maschile che sceglie, e risparmia, la primogenita Thomasine), per giungere a una sorta di maccartismo auto-indotto, dove la diffidenza diventa colpevolizzazione reciproca, fino al massacro finale, che dalla mano del divino/demoniaco passa a quella del femmineo, nella pulsione scoperchiata di donne che odiano donne (la gelosia della madre verso la figlia) e nella libido sterzata del più giovane Caleb verso la sorella. Thomasine, fulcro narrativo, ad attirarsi nevrastenie, accuse di omicidio e di malignità, verrà infine eletta per un sabba d’iniziazione, senz’altro la virata decisiva verso il fantastico, mentre a tutto il film piace permanere tra lunghe evocazioni fanatiche del divino (il puritanesimo che s’inasprisce nella povertà e fagocita la stessa) e ambiguità di contenuto, senz’altro il lato più interessante dell’opera, nell’evidenza di una manifestazione psichica isterica che, senza scomodare il sovrannaturale, è figlia di segregazione, sofferenza e fame. Eggers gira con lentezza, in campi mai fermi ma che s’avvicinano, come sonde, alle avversità incompiute ed extraordinarie che percuotono il nucleo, consciamente arbitro di un mezzo che lambisce di soppiatto come l’occhio malvagio in attesa e, insieme, come una visione osservativa e contemplante che si limita a registrare la parabola di una strage. Thomasine, infatti, liberatasi dalla madre austera, dal padre da cui si sente tradita e accusata, dai due gemelli terrificanti che la deridono, alla fine, insieme alle sue nuove consorelle streghe, letteralmente, vola. Sarebbe a dire: la deviazione mentale (o religiosa), in una chiusa che pare quasi un happy ending, è una scelta, o un destino inevitabile – e, forse, più roseo della realtà stessa.

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