Love will tear us apart – L’amore da farsi in due: TWO LOVERS di James Gray
REGIA: James Gray
SCENEGGIATURA: James Gray, Ric Menello
CAST: Joaquin Phoenix, Vinessa Shaw, Gwyneth Paltrow, Isabella Rossellini
ANNO: 2008
Two Lovers di James Gray è un triangolo amoroso. Il protagonista Leonard, fotografo che ha appena tentato il suicidio, la remissiva Sandra, la spregiudicata bionda Michelle. Archetipi fissi in struttura tripartita, in cui il primo vertice oscilla tra il secondo e il terzo, legato ad entrambi ma allo stesso tempo soprastante rispetto ad essi, distante e solitario. Rinchiuso in se stesso, nella propria incapacità di scegliere tra i due poli. Il titolo, però, curiosamente va in direzione opposta. Contraddice sia la dimensione del lui, lei e l’altra che quella dell’singolo e dell’uno, quella antropocentrica del male di vivere come unica categoria conoscitiva del mondo circostante e dei suoi affanni.
Opta per il doppio, James Gray. Quello, che più tradizionale non si può, di una qualsiasi love story. A leggere la trama del suo film, d’altronde, si potrebbe pensare a un mélo lineare e perfino già visto altre mille volte. Consueto nelle premesse e nello svolgimento. Allora dove sta la novità, l’inghippo, la glaciale contemporaneità di questo film dolente e abbagliante, immerso nella placenta uterina del color seppia e nell’umbratile verità di una ferita scoperta e ancora sanguinante? Verrebbe da dire che è, anche in questo caso, una questione di geometrie, di affermazione e allo stesso negazione di un equilibrio, della messa in gioco di una stabilità agognata ma mai realmente perseguita. Gray dopotutto è un regista che ha tutti i crismi del classico, non importa se neo o post, anche se a ben guardare la luce dei suoi film la prima opzione può apparire forse più calzante. Un talento che fin da giovanissimo che ha saputo trasformare delle saghe criminali e familiari molto personali in dei drammi infuocati di statura, dicotomie e scontrosità interne addirittura shakespeariane. Classico e geometrico sono in fondo due aggettivi che possono armonicamente dialogare e chi conosce bene l’essenza costitutiva della classicità sa perfettamente come essa non debba per forza essere sinonimo di pigra adesione ai canoni. La classicità, quella vera, ribolle di tormento, sa quando verificare la funzionalità della forma e quando mettere da parte la perfezione del teorema.
Proprio in questo scarto sta la consapevolezza del grande cinema, di un cinema raffinato nel calibrare la propria efficacia. In tutto ciò risiede la forza e il tatto di un cinema in grado di confrontare se stesso col canovaccio dostoevskiano de Le notti bianche per farne una metafora abissale di un uomo solo, contro se stesso e contro il mondo. Perso sulle terrazze, sulle rive delle spiagge, sui bagnasciuga: tutti luoghi transitori, senza un prima ma soprattutto senza un dopo, proiettati verso l’orizzontalità celeste o marittima dell’ignoto che attutisce i rumori e silenzia anche i tremori e i segreti interiori. Two Lovers oscilla tra questi due vettori, che non sono solo indicatori di controllo stilistico ma anche lasciapassare per il dramma, per la sua tenitura trattenuta o per il suo eventuale dispiegamento. Due, per forza di cose, perché una storia d’amore, a prescindere dal contesto, dagli elementi in più e dai distrattori, è sempre e comunque un sistema chiuso. Che va dal tutto al niente e dal niente al tutto, da A a B e da B ad A. Nessuna possibilità di divagazione, perché nel momento in cui qualcosa turba questa fissità ecco che l’intera impalcatura cambia, diventa altro da sé. Si passa dalla dualità allo straniamento, dal gioco in coppia alla pluralità di un sovrappiù stonato. Che è quello che investe Leonard, che vede l’equilibrio del doppio come condizione univoca dell’amore scardinarsi nel bel mezzo della sua vita fragile e caduca di eterno ragazzo ancorato alla sua passione di sempre. Anche questa, abbastanza intuibile: la fotografia, contrassegno nel quale qualsiasi regista può specchiare l’origine del proprio mestiere e della propria arte in modo sufficientemente automatico. Un’affezione da coltivare nell’ombra, al buio di una camera oscura all’esterno della quale ogni cosa si sfrangerebbe, morendo boccheggiando come un pesce fuor d’acqua. Come un amore che si rimpalla da una finestra all’altra tra messe a nudo e spioncini da cui accarezzare una sfocatura dell’anima, ma che poi non sa dove attecchire, che forma prendere, perché non sono rimasti neanche più templi collettivi in cui rendere giustizia alla sacralità di un rito come l’innamoramento. Non c’è bisogno, parlando del rapporto di vedo-non vedo di Leonard e Michelle, di scendere nella referenzialità hitchcockiana de La finestra sul cortile e di una tensione qui assente, integralmente sostituita dalla malinconia della rassegnazione.
“Piango perché sono felice”. No, al contrario, Leonard forse è felice perché piange. Perché gli è rimasta, almeno, la possibilità di uno sfogo, di un’umidità che lo consegni al mare come una creatura salvata dalle acque. Se Two Lovers è anche e soprattutto un melodramma devastante sulla natura del sentimento amoroso, lo si deve a questa concessione sottile, che Gray tende quasi a celebrare con pudore, a marginalizzare sullo sfondo di un cinema che a sua volta rifiuta la sovraesposizione dei sentimenti degli umani per ribadirne sottobanco il valore di esseri soffrenti (la frase da tatuare in tal senso è: “Le persone guardano le foto, non c’è bisogno che ci stiano anche dentro”). Ecco che allora l’ordinarietà plumbea degli interni trova un’effrazione liberatoria e completamente opposta nell’esterno arioso di un tetto in cui i moti dell’animo si fanno palesi e si prova davvero e per la prima volta il brivido di (non) essere insieme appassionatamente, di tenere una fiamma a un centimetro non solo dagli occhi, come fa Leonard in un’altra scena, ma anche dal cuore. Il potere illusorio di una magnifica ossessione. Che, non a caso, è uno dei più grandi melodrammi della storia del cinema.