RUBBER di Quentin Dupieux
REGIA: Quentin Dupieux
SCENEGGIATURA: Quentin Dupieux
CAST: Stephen Spinella, Roxane Mesquida, Jack Plotnick, Wings Hauser
NAZIONALITÀ: Francia
ANNO: 2010
UNO PNEUMATICO ALL’ATTACCO DI HOLLYWOOD
A volte il cinema sa ancora riservare sorprese. Rubber, seconda prova dietro la macchina da presa per Quentin Dupieux, é una di quelle (rare, si può dire?) sorprese. La corsa all’ipertrofia dell’effetto speciale – che voglia dire un uso massiccio della computer grafica o un infarcir le proprie storie di temi forti e, come si diceva qualche tempo fa, impegnati, poco cambia (e dopotutto, sempre della trasposizione pratica di un vieto “vi stupiremo con effetti speciali” si tratta) – ha quasi spazzato del tutto via la voglia del cinema di riflettere su se stesso e, di conseguenza, di prendersi in giro. Già, perché quando ci si prende sul serio al punto di parlar di se stessi in terza persona (e il cinema lo fa spesso, e sembra volentieri) gli esiti principali sono alla fine tre: l’autismo, l’ironia/autoironia, e Avatar (ovvero la dichiarazione palese della potenza del marketing sopra ogni tipo di forma o contenuto, e qualità o valore, del film in sé). Posto che a chi scrive continua a piacere il cinema che a parlare in terza persona (leggi: a tirarsela) non c’é ancora arrivato, é pur vero che esistono film che hanno il loro perché di esistere anche nella categoria succitata, e non possono che essere quelli che (si) prendono poco sul serio in tutto e per tutto. Una delle vette di questo cinema, morto e cinico ma sempre gustoso, abbiamo avuto il piacere di vederla nello sberleffo herzoghiano de Il Cattivo Tenente di New Orleans, uno dei più riusciti mocking sui meccanismi di retorica e sceneggiatura del cinema hollywoodiano. Rubber, il film di cui si sta parlando senza parlarne (calla maniera di Pulcinella, se volete), ha diritto di stare nel novero dei film di questo “genere”, e di starci con agio, seduto su un seggio di quelli col nome dietro lo schienale per il suo esser barbaro, stupido, folle, delirante, surreale, violento, comico.
La storia é quella di uno pneumatico gettato a bordo strada che un giorno si anima e getta il panico nel deserto della California, sterminando cose, animali, persone lungo le tappe del suo inseguire una bellissima ragazza in decappottabile, ovvero quel che si configura come un inno all’ingenuità del cinema, in cui – più spesso di quanto gli ingessati sceneggiatori del mainstream americano vogliano far credere (Lost crew compresa e anzi tra i primi) – le cose accadono così, senza una ragione particolare. Perché in E.T. l’alieno é color marrone? No reason. E perché noi spettatori siamo disposti ad accettarlo? Ancora, no reason. C’est la vie, e d’altronde lo scriveva anche Pirandello che “la vita può benissimo fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, cui l’arte crede suo dovere obbedire”.
Credibilità, intrattenimento, tecnica: ecco il triduo magico dello spettacolo, e non ci scordiamo che il cinema é prima di tutto uno spettacolo; allora anche Dupieux inserisce nella sua storia che ha ben per protagonista uno pneumatico, il cui nome conosceremo solo alla fine, un pubblico di spettatori delle gesta del gommoso (contro)eroe, e ci avverte che ciò che stiamo vedendo (la catena di omicidi che il protagonista del film sta compiendo davanti ai nostri occhi) cesseranno di esistere non appena gli spettatori (quelli nel film, ma forse non solo) non ci saranno più. Come il cinema, perchè alla fine è solo (solo?!) di questo che si tratta.
La commedia dell’assurdo sposa il cinema dei fratelli Coen, e Quentin Dupieux (meglio noto in campo musicale e pubblicitario con il nome di Mr. Oizo, alias il creatore del pupazzo giallo che muove la testa a tempo di beat, all’anagrafe Levi’s Flat Eric) ci mette di suo l’occhio per l’immagine e l’invettiva dissacrante sul e nel (perché da fuori, l’ironia funziona meno) (meta)cinema.
In altre parole: prendi una gomma, falla rotolare, falla uccidere, falla osservare e lei andrà alla rivoluzione. La scoperta della ruota ha cambiato tante sorti, quella di Rubber non farà altrettanto, ma qualcosa di grosso un calcetto intanto se l’é preso. Se questo qualcosa di grosso lo conosciamo, e ha un nome che comincia per H e finisce per D e sta su una collinetta californiana ridendo con denti alfabetici, é talmente grasso e sazio che manco se n’é accorto e se ne resta bello compiaciuto e assiso su montagne di dollaroni. Peggio per lui, meglio per noi. Evviva la speranza. Una volta ogni tanto, almeno…