LO SCAFANDRO E LA FARFALLA

REGIA: Julian Schnabel
SCENEGGIATURA: Ronald Harwood
CAST: Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Max Von Sydow
ANNO: 2007


A cura di Sandro Lozzi

IL DIARIO DI UN VIAGGIO IMMOBILE

INNO ALLA GIOIA
Cominciamo da uno di quei dettagli che generalmente vengono bollati come simpatici inserti e nulla più, non degnati di attenzione poiché minimali ai fini diegetici, quei piccoli elementi che nei film sembrano sempre apparire lì quasi per caso (come se in un film possa esserci qualcosa di casuale. In un quadro il pittore butta pennellate a caso? In un libro l'autore inserisce parole a caso?), che si dà per scontato siano scelti aleatoriamente tra una miriade di opzioni possibili e tutte ugualmente significative.
In un flashback, il protagonista si ricorda di quando, da bambino, col padre aspettava il treno sul binario della stazione deserta di Berck. Sul binario deserto, il bambino canticchia una canzone. Poteva canticchiare una canzone qualunque, certo; una qualsiasi canzone popolare (nel senso ampio del termine), opportunamente datata, sarebbe andata bene. Ma il bambino canta "Singin' in the rain". Canta proprio "Singin' in the rain", non un'altra canzone. Balla anche, e, per come può un bambino imitare le movenze di Gene Kelly, balla proprio seguendo i passi che Kelly esegue nel numero più celebre della storia del musical. Può sembrare una scelta marginale quella di una canzone da far canticchiare a un bambino in un flashback non rivelatorio, ma il bambino canta proprio quella canzone, e l'importanza della scelta è sottolineata dal balletto. Non è una canzone qualsiasi, e non è un film qualsiasi. Singin' in the rain è citato, più velatamente, anche in un altro momento del film di Schnabel (che, togliamoci il dente, è forse il più bel film europeo degli ultimi dieci anni almeno): in un altro flashback, Jean-Dominique rivive la vacanza a Lourdes con Josephine; dopo il litigio nella stanza d'albergo, il protagonista lascia sola la ragazza e scende in strada; mediante un efficace gioco di luci, la strada sembra trasformarsi in un set cinematografico in tutto e per tutto simile a quello della celebre sequenza di Cantando sotto la pioggia, e come quello deserto e tutto a disposizione dell'attore, Mathieu Amalric, isolato inoltre da un vistoso movimento di macchina all'indietro che ancora riecheggia l'estetica fatiscente dei musical classici hollywoodiani.
Abbiamo dunque assodato che la citazione di Singin' in the rain è più di un semplice omaggio, e se insisto tanto su questo punto è proprio per l'utilizzo dello strumento-citazione, che è perfettamente integrato nella narrazione (al punto, come detto, da sembrare un dettaglio secondario della diegesi) e al tempo stesso si fa rivelatore di poetica e dichiarazione d'intenti. Insomma, ormai ci sono arrivato: semmai a qualche spettatore stia sfuggendo il senso del film, Schnabel dà un aiuto inserendo ("inserendo", non semplicemente "utilizzando") un richiamo a quel film che è probabilmente la più bella affermazione della gioia di vivere mai vista al cinema.
Andiamo ancora avanti, nel film. Verso la fine (un po’ in tutti i sensi), Jean-Do ha l’ennesimo flashback, quello risolutivo: dalla sua casa di Parigi, sale sulla sua auto sportiva nuova fiammante con il figlio, e insieme partono per una piacevole gita che dal centro della capitale, con i suoi monumenti e i suoi palazzi, si estende fino a una strada di campagna, su cui il protagonista viene colto da un malore e accosta, prima dell’ictus che lo ridurrà nello stato in cui è ora. Per riconoscere la seconda grossa citazione del film, su cui tutta questa sequenza è costruita, probabilmente non c’è bisogno di aver visto – come il sottoscritto – quasi venti volte il film in questione, I 400 colpi; la musica di sottofondo (anzi, di soprafondo) è infatti proprio il celebre tema scritto e orchestrato da Jean Constantin per il primo lungometraggio di François Truffaut, e le stesse riprese ricalcano esplicitamente quelle di Truffaut e Henri Decae: l’inizio della sequenza, composto di carrellate laterali in soggettiva sui palazzi e sulla Tour Eiffel, riprende le immagini dei titoli di testa de I 400 colpi, e la seconda parte, sulla strada di campagna, ricorda la fuga del piccolo Antoine Doinel verso il mare. Ricordo inoltre che entrambe le sequenze, nel capolavoro di Truffaut, erano scandite dal medesimo tema musicale sovracitato.
Anche qui il senso (del film) è presto detto dal senso (della citazione). I 400 colpi è (tra le tante cose) la storia di un bambino che vede quotidianamente i fastosi palazzi di Parigi e la Tour Eiffel, ma che non ha mai visto il mare. La fine del film è in realtà un inizio. Antoine arriva finalmente al mare, lo vede e lo tocca, lo vive sensibilmente; poi, e solo allora, il suo sguardo incrocia quello della macchina da presa e l’immagine si ferma con urgenza autoincidendosi coattamente la parola fine, a soffocare la gioia del ragazzino protagonista. L’arrivo al mare è l’inizio della nuova vita, quella vera, tutta da vivere, di Antoine Doinel. Allo stesso modo in cui quello che è capitato a Jean-Do, superato l’iniziale senso di soffocamento (lo scafandro) è l’inizio della sua nuova vita (quella vera?): nel momento in cui Amalric è colto dall’ictus, la mdp si solleva nell’aria con la leggerezza della farfalla.
Una scelta, come tutto il film e coerentemente con esso, terribilmente commovente nella tragicità con cui porta avanti una dichiarazione d’amore per la vita, per la gioia di vivere.
Del resto, pensando a un altro di quei dettagli su cui non ci si sofferma mai, Max Von Sydow (straordinario nella parte del padre) non è forse, con la sua longevità, la testimonianza vivente che magari la morte si può davvero sfidare e vincere come proprio lui fece nella memorabile partita a scacchi de Il settimo sigillo?

FARFALLE E SCAFANDRI – LO SGUARDO E IL SIMULACRO
Alla fine della sequenza della festa del papà, Cèline e i bambini salutano Jean-Do e vanno via. Un silenzio cosmico si impadronisce della scena, con il protagonista in piano ravvicinato che rimane solo nella sua stanza. La sua voce (che ovviamente non può che essere over), ossia il suo pensiero, entra a commentare e somatizzare la situazione, come accade per tutto il film. Ma a questa particolare sequenza, collocata peraltro piuttosto in avanti (e dunque dopo che già si è vista buona parte del film), Schnabel decide di assegnare un’importanza maggiore (i rapporti padri-figli sono uno degli aspetti più indagati nella pellicola) differenziandola da tutte le numerose scene simili presenti nell’opera, attraverso una forte e (per)turbante scelta di regia. Come ho detto, infatti, Jean-Do resta solo nella stanza ed è ripreso in piano ravvicinato. È dentro l’inquadratura. È oggetto inquadrato, non soggetto inquadrante; non si tratta insomma di una sua soggettiva.
Non è certo la prima non-soggettiva del film, né è la prima volta in cui Jean-Do è inquadrato mentre il suo commento over accompagna l’immagine. È però la prima volta in cui la presenza fisica di Jean-Do si sdoppia: la voce che ascoltiamo non è quella di Jean-Do in quel momento. Non appartiene al registro dell’immagine; viene da un’altra dimensione del racconto, quella dello Jean-Do autore del libro da cui il film è tratto, che guarda oggettivamente allo Jean-Do protagonista e ne descrive lo stato d’animo, mentre finora gli stati d’animo erano non descritti dall’esterno ma espressi, dal soggetto stesso, “in diretta”. Qui la scena invece è fatta di silenzio, pervasa dal silenzio, dal vuoto che si è creato e che si crea ogni qual volta qualcuno esca dalla stanza di Jean-Dominique, il protagonista stesso sta in silenzio anche interiormente, il vuoto di fuori si riflette nel vuoto di dentro. In questo quadro, la voce over che entra in scena non va a rompere il silenzio, ma a descriverlo. È come se a parlare non fosse la voce di Jean-Do ma la stessa farfalla che sembra manovrare la mdp nella scena, precedentemente citata, dell’ictus durante la gita in macchina. La farfalla è proprio questo, la necessità e la capacità di liberarsi dal bozzolo per prendere il volo e vivere.
Quella voce over è dunque quella di un esterno che osserva e commenta l’immagine, che è silenziosa. E l’identificazione di Jean-Do con l’immagine cinematografica è il leit-motiv portante di tutto il film. Ce lo dice chiaramente lui stesso; quando comprende di poter essere ovunque e chiunque grazie all’immaginazione, scorrono sullo schermo delle immagini fotografiche di Marlon Brando, ma Jean-Do ci avverte che non sta pensando di essere un grande divo: “Quello non sono io, è Marlon Brando! Questo, sono io!”, e lo dice mentre sullo schermo si susseguono le immagini più disparate, uno sciatore, una montagna, degli uccelli,… “Questo” non è nessuno, nessuno di immediatamente identificabile (come lo è Brando); “questo” è, molto pragmaticamente, l’immagine cinematografica. Non a caso, poco dopo, racconta che spesso si fa portare in un posto che chiama Cinecittà, e che i paesaggi che vede intorno sembrano set cinematografici.
I primi 30-40 minuti del film sono straordinariamente efficaci (ai limiti della sostenibilità fisica) nel restituire la sofferenza di un uomo che senza accorgersene si ritrova a non essere più in grado di controllare e muovere alcuna parte del proprio corpo ad esclusione degli occhi. La sequenza in cui a Jean-Do viene cucita la palpebra destra per evitare l’ulcerazione della pupilla è esemplare in tal senso: non è tanto il dolore fisico (o la sua proiezione) a rendere quasi insopportabile la visione, quanto piuttosto il senso soffocante di claustrofobia che comporta l’essere chiuso in un corpo che non risponde più a nessun tipo di comando.
Per rendere bene questa serie di idee, per mettere in scena lo scafandro, Schnabel porta l’identificazione tra il protagonista e il cinema alle estreme conseguenze. Se la farfalla è la capacità di volare, leggeri, dove si vuole, lo scafandro è il peso e l’ingombro di un’attrezzatura difficilmente manovrabile. Se la farfalla è l’immagine cinematografica, lo scafandro non può che essere la macchina da presa. In tutta la prima parte, e in tutti i momenti successivi in cui Jean-Do si sente nello scafandro, la macchina da presa prende fisicamente il suo posto. La storia di Jean-Do è la storia stessa del cinema: prima di arrivare a saper comunicare, deve passare attraverso una serie di stadi evolutivi e di prove. L’occhio che si apre, dopo il coma, è un mascherino di apertura simile a quello dei film muti; nelle primissime scene le immagini e i rumori sono confusi, occhi e orecchie sono come finestre sul mondo ma ancora disordinate; tutto quello che riesce a fare è vedere “delle immagini”, si rende conto di non poter parlare, proprio come il cinema agli inizi; quando riceve le prime visite, i dottori spiegano (a Celine e a Laurent) che devono parlargli “direttamente in asse”, poiché fuori dal campo non potrebbe vederli. Non prima di potere, almeno nell’immaginazione, muovere la testa: ecco che una “semplice” panoramica si carica di significati.
Attraverso il proprio percorso, Jean-Do realizza la volontà di evadere dallo scafandro e la disponibilità di tutto quello che gli occorre per farlo, per poter immaginare qualunque cosa: occhio, immaginazione, memoria.

(07/02/08)

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